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CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE - Sentenza 10 marzo 2011, n. 5733
 

Cassazione Lavoro: no alla responsabilità automatica del committente per infortunio lavoratore

Corte di Cassazione - Sezione Quarta Penale, Sentenza 30 gennaio 2012, n. 3563
 

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CAPARRA CONFIRMATORIA E RISARCIMENTO DEL DANNO. DOMANDA NUOVA IN APPELLO

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 14-01-2009, n. 553

 

In tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo - oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all'irrinunciabilità dell'effetto conseguente alla risoluzione di diritto - all'incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all'azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito - in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale - di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative. (Rigetta, App. Napoli, 28/06/2001)

 

 

 

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 14-01-2009 n. 553

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

N.R., N.G. e N.A., nel convenire in giudizio dinanzi al tribunale di Nola i coniugi D.E. e L.N., esposero, in qualità di promissari acquirenti di un immobile di proprietà di questi ultimi:

- di avergli corrisposto, contestualmente alla stipula del preliminare di vendita, dapprima la somma di L. 65 milioni a titolo di caparra confirmatoria, poi quella di L. 85 milioni quale ulteriore acconto sul prezzo residuo;

- di essersi obbligati a pagare tale prezzo entro il 31 gennaio 1996;

- di avere, peraltro, consegnato ai promittenti venditori, a garanzia di tale adempimento, in luogo del denaro, alcuni effetti cambiari.

Tanto premesso, i N. chiesero la risoluzione del preliminare per inadempimento delle controparti - che non avevano accettato i titoli cambiari in locum pecuniae - e la loro condanna alla restituzione della complessiva somma di L. 178 milioni.

I coniugi L., nel costituirsi, chiesero a loro volta il rigetto della domanda risolutorio/risarcitoria sì come introdotta dagli attori, instando, in via riconvenzionale, per la declaratoria di risoluzione del preliminare per inadempimento dei N. - inottemperanti ad una diffida a comparire dinanzi al notaio per la stipula del contratto definitivo -, con conseguente "ritenzione della caparra e risarcimento del danno in misura da determinarsi da parte del tribunale".

Il giudice di primo grado respinse la domanda principale e, in parziale accoglimento di quella riconvenzionale, dichiarò risolto il preliminare per inadempimento degli attori, condannando peraltro i convenuti in riconvenzione alla restituzione della somma di L. 65 milioni ricevuta a titolo di caparra, per mancata prova del danno lamentato da costoro.

La sentenza fu impugnata da entrambe le parti dinanzi alla corte di appello di Napoli, alla quale i promissari acquirenti chiesero che fossero loro riconosciuti e corrisposti gli interessi sulla somma versata a titolo di caparra (della quale era stata disposta la restituzione in primo grado), mentre i promittenti venditori avrebbero invocato, per la prima volta in quel grado di giudizio, la facoltà di esercitare il recesso dal contratto - sì come riconosciutagli, in qualità di parte non inadempiente, dall'art. 1385 c.c.-, con conseguente ritenzione della caparra (in particolare, si legge nella sentenza di appello che, "con il primo motivo di gravame, i promittenti venditori deducono di sostituire alla domanda riconvenzionale di risoluzione del preliminare di vendita e di risarcimento dei danni, spiegata in primo grado, quella di recesso del contratto con ritenzione della caparra": così delimitato il thema decidendum in quel grado di giudizio, per pacifica ammissione della stessa parte appellante, non residua in questa sede alcuna ulteriore questione circa la reale portata della domanda spiegata in primo grado, con la quale, secondo la ricostruzione dell'intera vicenda processuale sì come operata dallo stesso giudice di appello, i promittenti venditori avevano in realtà chiesto, con formula dalla portata più ampia, "la risoluzione del preliminare per inadempimento, con conseguente ritenzione della caparra e condanna al risarcimento dei danni").

La corte partenopea, nell'accogliere in parte qua il gravame dei promissari acquirenti, condannò i coniugi L. a corrispondere gli interessi legali sulla somma di L. 65 milioni e a restituire l'ulteriore somma di L. 85 milioni ricevuta a titolo di acconto.

Osservò il giudice territoriale, per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità, che il motivo di appello con il quale i promittenti venditori avevano dedotto di voler sostituire alla iniziale domanda riconvenzionale di risoluzione contrattuale per inadempimento della controparte e di risarcimento dei danni quella di recesso dal contratto e di ritenzione della caparra non poteva trovare ingresso in sede di appello, attesone l'irredimibile carattere di novità.

La sentenza della corte partenopea è stata impugnata da D. E. e L.N. con ricorso per cassazione sorretto da un unico, complesso motivo di gravame.

Resistono con controricorso N.R., N.G. e N. A..

L'esame del ricorso è stato rimesso a queste sezioni unite dal Primo Presidente a seguito di ordinanza interlocutoria n. 4442 del 28.2.2006, con la quale la seconda sezione della corte ha ravvisato e segnalato l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza sulla questione se, con riferimento ad un preliminare di vendita in relazione al quale il promissario acquirente abbia corrisposto al promittente venditore una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, il venditore convenuto dall'acquirente per la risoluzione del contratto sul presupposto di un preteso suo inadempimento possa chiedere, in via riconvenzionale, in primo grado, la risoluzione del contratto per inadempimento dell'acquirente e il risarcimento del danno, e in appello - dopo che il primo giudice abbia accolto la (sola) riconvenzionale di risoluzione, rigettando quella di risarcimento per mancanza di prova del danno - il recesso dal contratto ai sensi dell'art. 1385 c.c., comma 2, e la (conseguente) ritenzione della caparra.

MOTIVI DELLA DECISIONE7

Con l'unico motivo di ricorso, la difesa dei coniugi L. denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 183 e 345 c.p.c., art. 1385 c.c.; insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.

Si sostiene, nell'illustrazione del motivo, che la sostituzione, in sede di appello, della originaria domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento con quella di recesso ex art. 1385 c.c. non integrerebbe affatto gli estremi dello ius novorum (vietato), ma andrebbe, di converso, configurata come esercizio di una perdurante (quanto legittima) facoltà del richiedente, in guisa di istanza processuale soltanto ridotta rispetto alla già proposta risoluzione, nell'ambito della medesima dimensione risarcitoria della domanda, in conseguenza dell'inadempimento di controparte.

Come si è già avuto modo di accennare nel corso dell'esposizione dei fatti di causa, la questione del coordinamento dei due rimedi risarcitori alternativamente riconosciuti dall'art. 1385 c.c. - quanto, cioè, alla facoltà, per la parte adempiente che abbia agito per la risoluzione del contratto (art. 1385 c.c., comma 3) e per la condanna della parte inadempiente al risarcimento del danno ex art. 1453 c.c., di sostituire tali richieste, in appello, con una domanda di recesso dal contratto e di ritenzione della caparra o del suo doppio (art. 1385 c.c., comma 2) - è stata più volte affrontata da questa corte di legittimità, e diacronicamente risolta, in modo non uniforme, secondo percorsi argomentativi diversi e sovente contrastanti.

1. - La giurisprudenza di legittimità sulla fungibilità dei due rimedi "caducatori" degli effetti del contratto.

L'analisi delle più significative pronunce di questa corte regolatrice può utilmente dipanarsi attraverso tre diversi livelli di analisi:

il primo che parta dalla ricognizione dei profili di uniformità rilevabili in tutte le sentenze che abbiano affrontato ex professo il tema dei rapporti tra domanda di risoluzione e di recesso;

il secondo che esamini i contenuti e le motivazioni delle pronunce favorevoli alla sostituzione della prima domanda con la seconda;

il terzo volto all'analisi delle speculari posizioni assunte da quella giurisprudenza più rigorosamente predicativa del principio della infungibilità tra le due istanze, benchè funzionali entrambe alla caducazione degli effetti del contratto.

1.1. I profili di omogeneità rilevabili nelle diverse pronunce della giurisprudenza di legittimità.

Indiscusse, nella giurisprudenza di questa corte, risultano, nel tempo, le affermazioni secondo cui:

- I due rimedi disciplinati, rispettivamente, dall'art. 1385 c.c., commi 2 e 3 a favore della parte non inadempiente nell'ipotesi di inadempimento della controparte hanno carattere distinto e non cumulabile;

- L'inadempimento si identifica in ogni caso con quello che dà luogo alla risoluzione, di cui il giudice è tenuto comunque a sindacarne gravità e imputabilità (Cass. 2032/1993; 398/1989; 4451/1985);

- La parte non inadempiente che abbia esercitato il potere di recesso riconosciutole dalla legge è legittimata a ritenere la caparra ricevuta o ad esigere il doppio di quella versata:

la caparra confirmatoria assume, in tal caso, la funzione di liquidazione convenzionale e anticipata del danno da inadempimento.

Qualora, invece, detta parte abbia preferito domandare la risoluzione (o l'esecuzione del contratto), il diritto al risarcimento del danno, che rimane regolato dalle norme generali, postula che il pregiudizio subito sia provato nell'an e nel quantum, con conseguente possibilità di rigetto della relativa domanda in ipotesi di mancato raggiungimento della prova (Cass. 7180/1997; 4465/1997);

- La parte che ha ricevuto la caparra, se destinataria di una richiesta di restituzione ex art. 1385 c.c., comma 2, sul presupposto del suo inadempimento, può limitarsi ad eccepire l'inadempimento dell'altra parte, senza bisogno di proporre domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, essendo questa una facoltà ulteriore, riconosciutale dal terzo comma dello stesso articolo (Cass. 4777/2005; 11684/1993);

- Introdotta la domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei danni, non è applicabile la disciplina della caparra di cui al secondo comma dell'art. 1385 c.c. (Cass. 13828/2000; 8881/2000; 8630/1998; 3602/1983); è illegittima la condanna della parte inadempiente a restituire il doppio della caparra ricevuta, stante la non cumulabilità dei due rimedi (Cass. 18850 del 2004); è necessaria la prova del danno secondo le regole generali (Cass. 17923/2007; 1301/2003; 849/2002; 4465/1997);

- Mancando la prova del danno, se inadempiente è l'accipiens, la restituzione della caparra è un effetto della risoluzione come conseguenza del venir meno della causa che aveva determinato la corresponsione (Cass. 8630 del 1998); l'obbligo di restituzione della somma ricevuta, privo di funzione risarcitoria, rimane soggetto al principio nominalistico (Cass. 5007/1993; 2032/1993; 944/1992); se l'accipiens è adempiente, viceversa, la caparra svolge funzione di garanzia dell'obbligazione di risarcimento (funzione che si esplica nell'esercizio del diritto - da parte di chi l'abbia ricevuta e abbia titolo risarcitorio - a ritenere l'importo fino alla liquidazione del danno), conserva tale funzione sino alla conclusione del procedimento per la liquidazione dei danni derivanti dall'avvenuta risoluzione, non trova giustificazione la richiesta di restituzione sino alla definizione di tale procedimento (Cass. 5846/2006), con conseguente compensazione con il credito risarcitorio.

1.2. - Le pronunce favorevoli alla sostituzione della domanda di risoluzione con quella di recesso.

Secondo parte della giurisprudenza di questa corte, la parte non inadempiente che, ricevuta una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, abbia purtuttavia agito per la risoluzione (o esecuzione) del contratto e per la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1453 c.c., potrebbe legittimamente sostituire a tali istanze, in grado di appello, quelle di recesso dal contratto e di ritenzione della caparra a norma dell'art. 1385 c.c., comma 2.

Tale richiesta non integrerebbe, difatti, gli estremi della domanda nuova vietata dall'art. 345 c.p.c., configurandosi piuttosto, rispetto alla domanda originaria, come esercizio di una perdurante facoltà (e come più ridotta istanza) rispetto alla risoluzione, in una parallela orbita risarcitoria che ruota pur sempre intorno all'inadempimento dell'altra parte (Cass. n. 3331 del 1959; n. 2380 del 1975; n. 1391 del 1986; n. 1213 del 1989; n.7644 del 1994; n. 186 del 1999; n. 1160 del 1996; n. 11760 del 2000; n. 849 del 2002, sia pur in obiter).

A fondamento di tale convincimento, si è di volta in volta sostenuto:

- che la domanda di recesso è anch'essa basata sulla declaratoria di inadempimento e tende, sia pure con particolari modalità, allo scioglimento del contratto;

- che la domanda di ritenzione della caparra (ovvero di pagamento del suo doppio), dal suo canto, è pur sempre una domanda di risarcimento, non incidendo sulla sua natura e funzione la peculiare forma di indennizzo preventivamente concordato;

- che "domanda nuova" è solo quella che importa la trasformazione oggettiva delle domande originarie, la modifica del fatto costitutivo del diritto vantato, l'alterazione dei presupposti oggetti vi e soggettivi dell'azione, sì da determinare uno spostamento dei termini della controversia su un piano diverso e più ampio, ovvero, sotto il profilo del petitum, quella che non abbia la possibilità di assorbire il contenuto della domanda originaria e non escluda pertanto la riproponibilità di quest'ultima dopo la decisione del giudice;

- che, ai sensi dell'art. 1453 c.c., comma 2, si deve ritenere virtualmente compresa nella domanda di esecuzione quella di risoluzione, mentre la domanda di recesso o di ritenzione, pur costituendo, sul piano processuale, una domanda più limitata rispetto a quella di risoluzione, discende ugualmente dalla declaratoria di inadempimento dell'altra parte secondo i principi generali sull'importanza e sull'imputabilità del medesimo, e importa l'assorbimento, sotto questo riguardo, del contenuto della domanda originaria di adempimento (e poi di risoluzione) sì da renderne giuridicamente impossibile la riproposizione.

Peraltro, la domanda di ritenzione della caparra è pur sempre una domanda di risarcimento dei danni, che non muta nella sua essenza e funzione sol perchè assume la configurazione dell'indennizzo preventivo, e può rappresentare per la parte una limitazione della reintegrazione patrimoniale oppure anche un vantaggio maggiore di quello che si sarebbe conseguito con i modi ordinari;

- che, in definitiva, la domanda di recesso dal contratto costituisce una domanda più limitata rispetto a quella di risoluzione per inadempimento, poichè, in quanto ricompresa nell'unico fatto costitutivo del diritto vantato, non altera i presupposti oggettivi e soggettivi dell'azione e non sposta la controversia su un piano diverso, tanto da introdurre nel processo un nuovo tema di indagine.

Va ancora ricordato come, di recente, con la pronuncia di cui a Cass. n. 11356 del 2006 - che contiene una sintesi dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in subiecta materia - questa corte abbia avuto modo di riaffermare il principio della fungibilità delle domande di risoluzione e di recesso, attribuendo poi alla caparra confirmatoria (del tutto condivisibilmente) natura composita, funzione eclettica, effetti diacronici.

1.3. - Le pronunce contrarie alla ammissibilità della sostituzione della domanda di risoluzione con quella di recesso.

Secondo altra parte della giurisprudenza di legittimità, la domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno e quella di recesso dal contratto medesimo con incameramento della caparra avrebbero, in linee generali, oggetto diverso, nonchè differente causa petendi.

Ne consegue che la seconda domanda, se formulata soltanto in appello in sostituzione della prima proposta in primo grado, non costituisce semplice emendatio della iniziale pretesa, ma delinea una questione del tutto nuova, come tale inammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c. (Cass. n. 8995 del 1993).

1.4. - Le pronunce relative a fattispecie di risoluzione di diritto Più composito appare il panorama giurisprudenziale di questa corte nell'ipotesi in cui la relazione tra azione di recesso e azione di risoluzione abbia avuto riguardo a fattispecie di risoluzioni di diritto.

A fronte di un filone costantemente volto ad escludere la possibilità di chiedere il recesso, ai sensi dell'art. 1385 c.c., comma 2 quando si è agito per la risoluzione di diritto dello stesso contratto, si rinvengono, difatti, altre decisioni che, in vario modo, appaiono più elasticamente funzionali a consentire al contraente non inadempiente di utilizzare il meccanismo del recesso. a) Nel senso della impraticabilità del rimedio del recesso, essendo il contratto già risolto ex lege, si orientano tre decisioni di questa corte (Cass. n. 2557 del 1989, n. 26232 del 2005, n. 9040 del 2006, tutte relative a contratti in cui era stata chiesta la risoluzione in forza di diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. ed era poi stato esercitato il recesso ai sensi dell'art. 1385 c.c., comma 2) il cui fondamento motivazionale ruota attorno all'ostacolo costituito da un effetto risolutivo già realizzatosi alla data della scadenza della diffida (e alla connessa natura dichiarativa della relativa sentenza di accertamento), con la conseguenza che "non si può recedere da un contratto già risolto de iure".

In particolare, le due pronunce più recenti, non ignare delle argomentazioni svolte dalla dottrina dominante sul tema della presunta legittimità di una sostituzione del recesso con la risoluzione, affermano di condividerle limitatamente alla ordinaria domanda di risoluzione giudiziale, e decidono in ordine alla caparra sulla base del consolidato principio del c.d. "effetto restitutorio" proprio della risoluzione.

In particolare, la pronuncia del 2005, dopo aver negato ogni fungibilità tra le domande di risoluzione e di recesso, riconosce poi la legittimità "dell'esercizio dei diritti relativi alla caparra confirmatoria di cui all'art. 1385 c.c., comma 2", specificando che si tratterebbe, nella specie, di far valere un'istanza di danni più ridotta rispetto a quella, maggiore, che si suppone esercitata con l'azione risolutorio/risarcitoria di cui al successivo comma 3, con conseguente esclusione di qualsivoglia profilo di novità della domanda con riferimento alla (sola) richiesta di danni e conseguente legittimità della "conversione" in appello dell'istanza di risarcimento in domanda di ritenzione;

b) Nel senso della possibilità del recesso se la risoluzione di diritto non si è verificata per rinuncia all'effetto risolutorio si esprime invece Cass. n. 7182 del 1997, a mente della quale l'esercizio del diritto di recesso (il cui unico presupposto sarebbe ravvisabile nell'inadempimento della controparte) è da dirsi legittimo qualora il contraente non inadempiente che abbia intimato diffida ad adempiere alla controparte - dichiarando espressamente che, allo spirare del termine fissato, il contratto si avrà per risoluto di diritto - abbia rinunciato successivamente, anche con comportamenti concludenti, alla diffida e al suo effetto risolutivo (come nel caso in cui abbia concesso un nuovo, ulteriore termine per l'adempimento, con la conseguenza che, nelle more di quest'ultimo, non essendo intervenuta la risoluzione contrattuale, il recesso "sarà ancora legittimamente praticabile").

Analogamente, Cass. n. 1952 del 2003, richiamato l'orientamento prevalente che ammette la sostituzione della domanda di risoluzione e risarcimento con quella di recesso (attesa "la minore ampiezza della seconda rispetto alla prima"), lo fa proprio aggiungendo che la sostituzione sarebbe ammissibile anche nelle ipotesi di risoluzione del contratto per una delle cause previste dalla legge (artt. 1454, 1455, 1457 c.c.), quando la parte abbia rinunciato agli effetti della risoluzione del contratto per inadempimento, rientrando tale potere nell'autonomia privata, che, "come riconosce al creditore il diritto potestativo di non eccepire preventivamente l'inadempimento che potrebbe dare causa alla risoluzione del contratto, così non gli nega quello di non avvalersi della risoluzione già verificatesi o già dichiarata" (nella specie, la risoluzione si era verificata per mancato rispetto del termine essenziale: la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di recesso e di ritenzione della caparra proposta in secondo grado sul rilievo che il contratto si era già risolto di diritto, omettendo di accertare se la parte avesse o meno rinunciato, in forma espressa o tacita, agli effetti della risoluzione del contratto). c) Nel senso della possibilità di utilizzare il meccanismo di cui all'art. 1385 c.c., comma 2 dopo essersi avvalsi della risoluzione di diritto senza ulteriore domanda di risarcimento del danno sembrano ancora indirizzarsi due ulteriori sentenze di questa corte (Cass. n. 1851 del 1997 e n. 319 del 2001), la prima intervenuta in una fattispecie di termine essenziale, l'altra di diffida ad adempiere:

in entrambe le ipotesi, è stato riconosciuto alla parte adempiente il diritto di esercitare l'azione ai sensi dell'art. 1385 c.c., comma 2, per ottenere, rispettivamente, di ritenere la caparra ricevuta ovvero di conseguire il doppio della caparra versata dopo essersi avvalsa della risoluzione di diritto già verificatesi: decisiva, a giudizio di quei collegi, era apparsa la circostanza che la parte, nell'esercizio dell'azione dichiarativa per l'accertamento della risoluzione di diritto, non avesse chiesto la liquidazione del danno ai sensi dell'art. 1453 c.c..

La decisione del 1997 aggiunge, poi, che la scelta alternativa prevista dall'art. 1385 riguarda l'esercizio dell'azione costitutiva di risoluzione di cui all'art. 1453 c.c. e non quella che si limita ad accertare l'intervenuto inadempimento, mentre la sentenza del 2001, sul presupposto della affinità sostanziale tra risoluzione del contratto per inadempimento e recesso di cui all'art. 1385 c.c., pone l'accento sulla funzione risarcitoria della caparra come preventiva liquidazione del danno e ritiene che la scelta tra questa o l'integrale risarcimento da provare, ai sensi del comma 3, non sia preclusa a chi si sia avvalso del meccanismo giuridico della risoluzione di diritto. d) Nel senso della possibilità di recesso indipendentemente dal tipo di risoluzione, infine, risulta essersi espressa, di recente, Cass. n. 16221 del 2002, concernente una fattispecie di risoluzione per diffida ad adempiere: la Corte, nel cassare la decisione dei giudici di merito che avevano negato alla parte adempiente il diritto di ritenere la caparra ricevuta essendo il contratto già risolto per effetto della facoltà di provocare la risoluzione del contratto mediante diffida, ha ripercorso funditus i disomogenei approdi della propria giurisprudenza e, pur non affrontando ex professo la questione della parificazione tra i due tipi di risoluzione, evidenzierà come carattere comune di entrambi sia pur sempre l'inadempimento presupposto, mentre altrettanto comuni "sono a dirsi i rimedi - ferma restando la distinzione tra la caparra, quale danno preventivamente determinato, e il danno effettivo da provare -", con la conseguenza che l'azione di recesso si configurerebbe "come domanda meno ampia di quella di risoluzione e risarcimento e, pertanto, non nuova". 1.5. - Le pronunce relative ai rapporti tra caparra e risarcimento.

Secondo Cass. 3555/2003, chi agisce in risoluzione non ha diritto, a titolo di danno minimo risarcibile, alla caparra (o al doppio di quella data) se non prova il maggior danno: la Corte precisa che la soluzione contraria comporterebbe il venir meno di ogni interesse ad esercitare il recesso, con conseguente soppressione del rimedio che la legge espressamente disciplina all'art. 1385 c.c., comma 2.

Altre pronunce, invece (Cass. 2613/1988,11356/2006) predicano l'opposto principio secondo il quale la caparra avrebbe funzione di minimum risarcibile anche nel caso di domanda di risoluzione:

in particolare, Cass. 11356/06 opina espressamente che la parte non inadempiente ben possa esercitare il recesso (rectius, la facoltà di ritenzione della caparra) anche dopo aver proposto la domanda di risarcimento e fino al passaggio in giudicato della relativa sentenza, ma in tale ipotesi essa implicitamente rinunzia al risarcimento integrale tornando ad accontentarsi della somma convenzionalmente predeterminata al riguardo (in termini, ancora, Cass., 18/11/2002, n. 16221; Cass., 24/1/2002, n. 849; Cass., 6/9/2000, n. 11760; Cass., 1/11/1999, n. 186).

Conseguentemente "ben può il diritto alla caparra essere fatto valere anche nella domanda di risoluzione". 2. - Le questioni di diritto sottoposte alle sezioni unite.

2.1 - Alla luce dell'analitico excursus che precede, emerge con maggiore chiarezza come le questioni di diritto sottoposte al vaglio di queste sezioni unite - in realtà più articolate e complesse di quelle rilevate con l'ordinanza di rimessione - possano così complessivamente sintetizzarsi:

a) Analisi della relazione - accessorietà, complementarietà, (in)dipendenza - intercorrente tra le azioni risolutorio/risarcitoria da una parte, e le azioni di recesso/ritenzione della caparra dall'altra;

b) analisi dei rapporti tra l'azione di risoluzione avente natura costitutiva e l'azione di recesso;

c) analisi dei rapporti tra l'azione di risoluzione avente natura dichiarativa e l'azione di recesso;

d) analisi dei rapporti tra risoluzione ex lege, rinuncia all'effetto risolutorio (in ipotesi di diffida ad adempiere e successiva "ritrattazione" dopo l'inutile decorso del termine), recesso;

e) analisi dei rapporti tra l'azione di risarcimento integrale e l'azione volta alla ritenzione della caparra;

f) proponibilità dell'azione di ritenzione della caparra in assenza di azione risarcitoria, a prescindere del rimedio caducatorio prescelto (risoluzione/recesso).

2.2. - Alla soluzione delle questioni sopra esposte non appare un fuor d'opera far precedere una sintetica ricostruzione dei più rilevanti aspetti morfologici e funzionali dell'istituto della caparra, oltre che una breve e giocoforza incompleta ricognizione delle posizioni della dottrina in ordine ai rapporti tra i rimedi previsti dall'art. 1385 c.c., nell'intendimento di dare continuità ad un recente indirizzo accolto da queste sezioni unite, che, in non poche pronunce, hanno analizzato, dato conto e sovente fatte proprie non poche riflessioni della migliore giuscivilistica italiana, in un fecondo e sempre più intenso rapporto di sinergia di pensiero tra giurisprudenza di legittimità e studiosi del diritto destinato sempre più spesso a tradursi in "diritto vivente". 3. - La natura giuridica della caparra confirmatoria - Le posizioni della dottrina.

3.1. - La caparra confirmatoria viene comunemente definita come negozio giuridico accessorio che le parti perfezionano versando l'una (il tradens) all'altra (l'accipiens) una somma di denaro o una determinata quantità di cose fungibili al momento della stipula del contratto principale al fine di perseguire gli scopi di cui all'art. 1385 c.c..

In particolare, il termine "caparra" riveste, già sotto il profilo strettamente semantico, la duplice funzione, da un canto, di qualificare, sotto il profilo causale, il negozio giuridico accessorio, dall'altro di indicare la somma di denaro o la qualità di cose fungibili che ne costituiscono l'oggetto (come si osserva correttamente in dottrina, è la stessa norma regolatrice dell'istituto che discorre, da un lato, di dazione "a titolo di caparra", così indicando il negozio giuridico che dà fondamento alla datio, dall'altro di "restituzione o imputazione della caparra", in tal modo riferendosi specificamente all'oggetto del negozio, il denaro o la res tradita).

Sotto il profilo tanto morfologico quanto funzionale, il mutevole istituto (come già compiutamente e condivisibilmente rilevato dalla 3^ sezione questa corte, sulla scia di una attenta dottrina, con la sentenza 11356/2006) presenta caratteristiche affatto composite e spiccatamente eclettiche.

La caparra confirmatoria, difatti, su di un piano, per così dire, di funzionalità patologica, è volta a garantire l'esecuzione del contratto, venendo incamerata in caso di inadempimento della controparte, sotto tale profilo avvicinandosi alla cauzione; ha carattere di autotutela, consentendo il recesso senza la necessità di adire il giudice; ha altresì funzione di garanzia per il risarcimento dei danni eventualmente liquidati in via giudiziale, ovvero, alternativamente, di liquidazione preventiva, forfetaria e convenzionale del danno stesso, automaticamente connessa al recesso cui la parte si sia determinata in conseguenza dell'inadempimento della controparte; in una speculare dimensione di fisiologico dipanarsi della vicenda contrattuale, essa si caratterizza invece come anticipata esecuzione parziale della prestazione dedotta in contratto (mentre correttamente se ne esclude una ulteriore funzione probatoria dell'intervenuta conclusione del contratto principale - come pure sostenuto da una risalente giurisprudenza: Cass. 925/1962, 1326/1958 -, atteso che ad essere tradizionalmente inteso come "probatorio" è in realtà il riflesso di una duplice peculiarità morfologica dell'istituto, la sua realità e la sua accessorietà).

Fattispecie cangiante e versatile, la caparra assume, diacronicamente - a seconda, cioè, del "momento" del rapporto negoziale in cui si colloca -, forme e funzioni assai diversificate, in ciò distinguendosi nettamente tanto dalla caparra penitenziale, che costituisce il semplice - e non altrimenti utilizzabile - corrispettivo del diritto di recesso, quanto dalla clausola penale, rispetto alla quale non pone limiti all'entità del danno risarcibile - ben potendo la parte non inadempiente recedere senza dover proporre domanda giudiziale o intimare la diffida ad adempiere e trattenere la caparra ricevuta ovvero esigere il doppio di quella prestata a totale soddisfacimento del danno derivante dal recesso, del tutto a prescindere dall'effettiva esistenza e dimostrazione di un danno;

ovvero non esercitare il recesso e chiedere la risoluzione del contratto e l'integrale risarcimento del danno sofferto in base alle regole generali, sul presupposto di un inadempimento imputabile e di non scarsa importanza (la parte non inadempiente non potrà, in tal caso, incamerare la caparra, bensì trattenerla a garanzia della pretesa risarcitoria, ovvero a titolo di acconto su quanto a lei spettante quale risarcimento integrale dei danni che saranno in seguito accertati e liquidati).

Nè va trascurata l'ulteriore aspetto funzionale della caparra conseguente alla scelta della parte di avvalersi dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, anzichè recedere dal contratto: la sua restituzione è in tal caso conseguenza dell'effetto restitutorio proprio della risoluzione negoziale, del venir meno, cioè, della causa della sua corresponsione: essa perde in tale ipotesi la funzione di limitazione forfettaria e prederminata della pretesa risarcitoria all'importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell'integrale danno subito se e nei limiti in cui riesce a provarne l'esistenza e l'ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 s.s. c.c..

3.2. - La questione del coordinamento tra il rimedio del recesso e quello della risoluzione, espressamente disciplinati in favore del contraente non inadempiente dal codice vigente, ha radici profonde, che affondano nell'antico dibattito accesosi in dottrina già nel vigore del codice del 1865 - che contemplava la sola alternativa tra ritenzione della caparra e richiesta di esecuzione del contratto, mentre dottrina e giurisprudenza già si interrogavano, a quel tempo, sulla possibilità di chiedere il risarcimento secondo le regole ordinarie.

Ecco dunque il legislatore del 1942 introdurre, nell'ambito della disciplina generale dei contratti, accanto al rimedio del recesso con ritenzione della caparra (o richiesta del doppio di quella versata), quello della risoluzione del contratto con conseguente risarcimento del danno da quantificarsi secondo le regole ordinarie.

Nella mens legis, secondo quanto risulta dalla relazione al codice, la caparra "mentre conferma il contratto (per modo che deve essere restituito o computato in caso di adempimento...), facilita le composizioni in caso di inadempimento: infatti, l'inadempiente...perde la caparra data o restituisce il doppio di quella ricevuta...e questa è certo una composizione spedita.

Ma poichè la caparra è di regola confirmatoria, la parte adempiente può far valere i suoi diritti in via ordinaria....e allora la caparra funziona come garanzia per il recupero dei danni, che saranno attribuiti in sede di risoluzione del contratto o, in caso di condanna ad eseguirlo, per la mora verificatesi".

Pacifico, secondo la unanime dottrina, il carattere di rigida alternatività tra i due rimedi, recesso/risoluzione, alcuni autori ne trarranno la ulteriore conseguenza - per la parte adempiente che non sia riuscita a provare in parte o per l'intero il danno subito nell'azione di risoluzione e risarcimento - della sopportazione del rischio di vedersi risarcito un importo inferiore alla caparra, ovvero negato qualsiasi importo.

Altra parte della dottrina, di converso, si indurrà più benevolmente a temperare tale rigida conseguenza tanto sul piano processuale - negando la configurabilità di una domanda nuova in ipotesi di sostituzione di quella risolutoria con quella di recesso/ritenzione -, quanto su quello sostanziale, ricostruendo la fattispecie, nella sua dimensione dinamica di liquidazione anticipata del danno, in termini di minimum risarcibile, sempre legittimamente esigibile dal creditore che non sia riuscito a provare il maggior danno.

3.3. - A partire dagli anni sessanta, si disegnano sempre più evidenti profili di omogeneità tra l'istituto di cui all'art. 1385 c.c., comma 2 - affidato alla manifestazione di volontà della parte non inadempiente - e la risoluzione del contratto per inadempimento, giusta la (condivisibile) considerazione per cui il recesso, in realtà, non assurge a dignità di categoria giuridica dotata di autonomia strutturale sua propria, ma rileva piuttosto come fattispecie negoziale dai profili funzionali non omogenei, se la legge stessa definisce in termini di "recesso" atti recettizi a struttura unilaterale diversi tra loro quanto a giustificazione causale e meccanismi effettuali.

Par lecito discorrere, allora, di due diverse discipline della risoluzione piuttosto che di alternativa tra recesso e risoluzione del contratto, par lecito immaginare, di conseguenza, una ricostruzione della fattispecie in termini di peculiare ipotesi di risoluzione di diritto, da affiancare (piuttosto che contrapporre) a quelle di cui agli artt. 1454, 1456, 1457 c.c..

Il recesso della parte non inadempiente si conferma così "modalità" (ulteriore) di risoluzione del contratto, destinata ad operare, indipendentemente dall'esistenza di un termine essenziale o di una diffida ad adempiere, merce la semplice comunicazione all'altra parte di una volontà "caducatoria" degli effetti negoziali - operante, nella sostanza, attraverso un meccanismo analogo a quello che regola la clausola risolutiva espressa.

Si discorre, all'esito di queste corrette riflessioni, del tutto opportunamente, di una "forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che presuppone l'inadempimento della controparte, avente i medesimi caratteri dell'inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale", cui consegue, tra l'altro, una "rilevante semplificazione del quadro probatorio".

Con riferimento ai rapporti tra gli effetti della caparra e i normali effetti dell'inadempimento dell'obbligazione contrattuale, si riconosce poi pacificamente, in dottrina, la facoltà di scelta conferita alla parte non inadempiente dall'art. 1385 c.c., mentre altrettanto dominante risulterà l'orientamento secondo cui il ricorso al recesso sarebbe legittimo anche quando sia stata proposta e proseguita una iniziale domanda giudiziale di (esecuzione o) risoluzione del contratto.

Tra le relative domande e azioni non si rinvengono ragioni di incompatibilità, e nella condivisa impraticabilità del relativo cumulo la maggior parte degli autori non scorge affatto l'ulteriore conseguenza dell'illegittimità dell'esperimento di entrambe in posizione alternativa o subordinata, che si ritiene consentita, di converso, "fino alla precisazione delle conclusioni nella sede giudiziale che prelude alla decisione di merito". 3.4. - Tale orientamento verrà, di recente, sottoposto a serrata critica da parte di altri autori, che, da posizioni minoritarie, qualificano in termini di vera e propria forzatura dogmatica l'idea che la domanda di recesso non integri gli estremi della domanda nuova rispetto a quella di (adempimento o) risoluzione ex art. 1453 c.c..

Pur condividendosi l'affermazione secondo cui la richiesta di recesso si configura quale "istanza ridotta" rispetto alla risoluzione, vive nello stesso ambito risarcitorio in relazione all'inadempimento dell'altra parte, si connota di conseguente identità di causa petendi (dal momento che la ragione del domandare si sostanzia in entrambi i casi nell'inadempimento dell'altro contraente), ad essere sottoposta a revisione critica è l'indiscriminata identificazione del relativo petitum.

Sostanziandosi l'azione di cui all'art. 1385 c.c., comma 2, in una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, operante alla stregua degli altri meccanismi di risoluzione stragiudiziale previsti dal codice, la sentenza che pronuncia su tale domanda non potrebbe avere - si sostiene - che natura dichiarativa, mentre è costitutiva quella che decide sulla risoluzione ai sensi dell'art. 1453 c.c., è di condanna quella che pronuncia sull'adempimento.

Duplice, allora, la conseguenza:

da un canto, è diverso il petitum immediato che identifica le azioni che si collegano alle tre domande, essendo diverso il tipo di provvedimento richiesto al giudice (giusta la distinzione chiovendiana ancor oggi condivisa dalla dottrina e giurisprudenza prevalente in tema di petitum attoreo), di talchè "non sussiste identità di azioni e quindi di domande se è vero che tale identità postula la coincidenza del petitum immediato e di quello mediato";

dall'altro, anche il petitum mediato (il bene della vita che si chiede alla controparte cui è rivolta la domanda), è in realtà diverso, se (ex art. 1453 c.c.), volendo conseguire lo scioglimento del vincolo, si chiede all'inadempiente di subire una certa modificazione giuridica quale quella che scaturisce da una pronuncia costitutiva di risoluzione, ovvero, con la domanda di recesso (ex art. 1385 c.c., comma 2), si impone alla controparte, mirando alla certezza del modo d'essere del rapporto, di prendere atto della positiva verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti stragiudiziali della risoluzione.

Fortemente (e condivisibilmente) critica appare ancora questa stessa dottrina rispetto alla possibilità di chiedere il recesso dopo aver inizialmente invocato la risoluzione del contratto sulla base di una pretesa (quanto in realtà impredicabile) disponibilità dell'effetto risolutorio, effetto del quale si evidenzia, specularmente, l'assoluta indisponibilità per la parte non inadempiente, sottolineandosi come tale, erroneo approdo giurisprudenziale esponga nella sostanza il contraente inadempiente, ormai condotto sulla via dell'avvenuta risoluzione, ad una inopinata reviviscenza del contratto e al conseguente, risorto obbligo di adempimento, vicenda che la legge vuole palesemente evitare, sancendo per tabulas il divieto di modifica della domanda di risoluzione in domanda di adempimento.

Quanto, infine, alla tesi della caparra intesa come minimum risarcibile, affacciatasi subito dopo l'introduzione dell'art. 1385 c.c., va notato come essa sia stata oggetto di recente riscoperta da parte di più di un autore negli ultimi anni, opinandosi in proposito che, nell'attribuire la scelta dei due rimedi ai sensi dell'art. 1385 c.c., il legislatore "sarebbe stato mosso dall'intento di tutelare il contraente non inadempiente consentendogli di provare l'eventuale maggior danno, senza per questo dover perdere quanto già garantitogli in via preventiva e forfetaria".

A fondamento di tale (poco comprensibile e ancor meno condivisibile) istanza di "ipertutela" della parte non inadempiente, si sottolinea che altrimenti "si falcidierebbe l'istituto della caparra annullandone la funzione tipica di predeterminazione del danno" (mentre, sul piano comparatistico si richiama - ma non del tutto conferentemente - il codice tedesco che, per un istituto omologo, prevede, in realtà, con disposizione del tutto "neutra", pp. 336 e 337 BGB soltanto che "qualora l'accipiens chieda il risarcimento del danno per inadempimento, nel dubbio, la caparra vada imputata a risarcimento, mentre deve essere restituita al momento della prestazione del risarcimento del danno").

Così, dal punto di vista sistematico, si sostiene - sul presupposto che l'alternativa non sia tra recesso e risoluzione ma tra l'accontentarsi della caparra o voler perseguire un più cospicuo ristoro - che domanda di risarcimento dei danni secondo le regole generali e domanda di ritenzione della caparra sarebbero entrambe species del più ampio genus "domanda di risarcimento" ai sensi dell'art. 1453 c.c., comma 1, autonome rispetto a quelle di adempimento, risoluzione o accertamento di intervenuta risoluzione.

In tal modo - si conclude - sarebbe soddisfatta, senza forzature dogmatiche di sorta, l'istanza di giustizia sostanziale (?) quale è quella del contraente incolpevole che, non essendo riuscito a conseguire l'integrale risarcimento per cui aveva agito art. 1385 c.c., ex comma 3 decida "di accontentarsi di meno". 3.5. - Pressochè unanime risulta, invece, la dottrina nel negare legittimità alla ormai ultratrentennale posizione espressa da questa corte di legittimità sul tema (supra, sub 1.2-d) della c.d.

"rinunciabilità" all'effetto risolutorio conseguente alla sua "ritrattazione" da parte del contraente adempiente, dopo l'inutile decorso del tempo fissato con la diffida (giurisprudenza consolidata, da Cass. 1530/1977 a Cass. 11967/2004; da ultimo, di recente, Cass. n. 23315 del 2007, che contiene, peraltro, una puntuale analisi e un implicito apprezzamento delle avverse opinioni dottrinarie).

L'asse portante della teoria della rinunciabilità ruota, difatti, come si legge ancora nella sentenza del 2007, attorno ad un concetto di essenzialità, per così dire, "unilaterale", posta, cioè, nell'esclusivo interesse del creditore, unico arbitro della convenienza o meno a far valere l'inutile decorso del tempo in seno al dipanarsi della vicenda negoziale.

Dunque, la norma di cui all'art. 1454 c.c. non tutelerebbe l'interesse del diffidato alla certezza del rapporto (intesa in termini di definitiva realizzazione dell'effetto risolutorio "di diritto" di cui discorre l'ultimo comma della norma stessa), ma (solo) quello del diffidante che, disponendo (sine die) dell'effetto risolutorio, può ancora e sempre agire per l'adempimento: così come, verificatosi l'inadempimento, la parte non inadempiente può scegliere tra risoluzione, giudiziale o di diritto (per diffida), e adempimento coattivo, così, verificatasi la risoluzione, la stessa parte potrebbe, nonostante la scadenza del termine indicato in diffida, purtuttavia esercitare l'azione di adempimento contrattuale.

Argomento a latere di tale ricostruzione della fattispecie, la natura giuridica della diffida che, in guisa di negozio giuridico unilaterale recettizio, non potrebbe produrre effetti contro e oltre la volontà del suo autore: nessun ostacolo, dunque, alla neutralizzazione del relativo effetto negoziale attraverso altra manifestazione di volontà negoziale, dichiarativa o per facta concludentia (tale ritenendosi, ad esempio, l'esercizio di un'azione giudiziale volta a conseguire un risultato affatto diverso dalla risoluzione).

A mente delle più approfondite costruzioni dottrinarie intervenute in subiecta materia (che queste sezioni unite, come di qui a breve si dirà, ritengono di poter condividere), l'effetto risolutorio conseguente alla diffida non rientrerebbe, viceversa, nella disponibilità dell'intimante.

Se "il contratto è risolto", creditore e debitore sono ormai liberati dalle rispettive obbligazioni (salvo quelle restitutorie), e l'effetto risolutivo, destinato a prodursi automaticamente, cristallizza un inadempimento e le sue conseguenze in iure impedendo ogni ulteriore attività di disposizione dell'effetto stesso.

In tal modo si opera un irrinunciabile bilanciamento tanto dei contrapposti interessi negoziali - ivi compreso quello dell'inadempiente che non può indefinitamente restare esposto all'arbitrio della controparte - quanto di quelli, più generali, al rapido e non più discutibile rientro nel circolo economico di quei beni coinvolti nella singola, patologica vicenda contrattuale.

4 - La soluzione dei attesiti sottoposti all'esame di Queste sezioni unite.

4.1. - E' convincimento del collegio che il ricorso dei coniugi L. debba essere rigettato, e che debba essere confermata la statuizione del giudice territoriale predicativa del carattere di novità della domanda da quegli proposta in appello in sostituzione di quella originaria, sia pur con le precisazione che di qui a breve seguiranno.

4.2 - Si è fatto cenno, in precedenza (supra, sub 2.1), come le vicende sostanziali e processuali scaturenti dai rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento da un canto, e tra domanda di recesso e di ritenzione della caparra dall'altro involgano delicate questioni di diritto, la cui soluzione postula una corretta analisi di tali rapporti in una più vasta ottica di ricerca e ritrovamento del reale fondamento, morfologico e funzionale, dell'istituto della caparra, entro i più vasti ed attuali confini del giusto processo inteso come processo celere, come processo evitabile, come equo contemperamento delle posizioni delle parti contrattuali secondo il fondamentale canone ermeneutico della buona fede reciproca, id est del ripudio di qualsivoglia forma di abuso che dottrina e giurisprudenza tedesca felicemente definiscono come Rechtsmi brauch.

Va in premessa senz'altro condivisa la ricostruzione dottrinaria secondo la quale il diritto di recesso è una evidente forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppone pur sempre l'inadempimento della controparte avente i medesimi caratteri dell'inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale: esso costituisce null'altro che uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, alla quale lo accomunano tanto i presupposti (l'inadempimento della controparte) quanto le conseguenze (la caducazione ex tunc degli effetti del contratto).

Tale inquadramento sistematico dell'istituto postula, al fine di un legittimo esercizio del diritto di recesso e di conseguente ritenzione della caparra, l'esistenza di un inadempimento gravemente colpevole, di un inadempimento cioè imputabile (ex art. 1218 c.c. e art. 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1455 c.c.).

Un inadempimento imputabile, poichè in assenza di esso viene meno il più generale presupposto richiesto dalla norma di cui all'art. 1218 affinchè il debitore possa considerarsi tenuto al risarcimento del danno, del quale la caparra costituisce (almeno in uno dei suoi polifoni aspetti funzionali) liquidazione anticipata, convenzionale, forfetaria: la impossibilità dell'esecuzione della prestazione per causa non imputabile determina la risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1218, 1256 e 1463 c.c.) e la conseguente caducazione dell'intera convenzione negoziale, ivi compresa quella, accessoria, istitutiva della caparra (in tal senso, la pressochè costante giurisprudenza di questa corte: Cass. 23.1.1989 n. 398, ove si legge che la disciplina dettata dall'art. 1385 c.c., comma 2 in tema di recesso per inadempimento nell'ipotesi in cui sia stata prestata una caparra confirmatoria, non deroga affatto alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l'inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione all'interesse dell'altro contraente.

Pertanto nell'indagine sull'inadempienza contrattuale da compiersi alfine di stabilire se ed a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del negozio).

Un inadempimento grave perchè (come già correttamente evidenziato nella sentenza dianzi citata, e come confermato dalla dominante dottrina), diversamente opinando (come pure ipotizzato da chi sottolinea come la collocazione della norma ex art. 1385 sia al di fuori dalla specifico capo dedicato alla risoluzione per giusta causa ed ai suoi presupposti, non contenendo il predetto articolo alcuna menzione delle caratteristiche dell'inadempimento nè tantomeno sussumendone la gravità al rango di condizione necessaria per l'esercizio del diritto di recesso) si finirebbe, da un canto, per indebolire, anzichè rafforzare, il vincolo negoziale - consentendosi alla parte di sottrarvisi capricciosamente al solo annunciarsi di qualsivoglia, minima difformità di esecuzione - così determinando una insanabile contraddizione con l'opposta, tipica finalità di rafforzamento del predetto vincolo, universalmente riconosciuta alla caparra -; dall'altro, per negare incomprensibilmente in radice la identità strutturale di un medesimo presupposto risarcitorio (l'inadempimento), così come sussunto nella sfera del rilevante giuridico dall'unica norma che lo disciplina in parte qua (l'art. 1385 c.c.), salvo ad annettervi poi, sul piano funzionale, due rimedi alternativi di tutela (il recesso, la risoluzione): ammettere l'ipotesi contraria condurrebbe alla poco logica conseguenza per cui in presenza di un inadempimento lieve il contraente incolpevole potrebbe recedere dal contratto, ma non provocarne la risoluzione in via ordinaria (con buona pace della evidente alternatività "integrale" dei rimedi rispettivamente modellati dal comma 2 e dal comma 3 della norma citata, e salva, peraltro, la contraria volontà delle parti che, con apposita clausola, si determinino ad attribuire rilevanza anche ad ipotesi di inadempimento lieve, attraverso una specificazione ed eterodeterminazione del regolamento negoziale espressamente convenuto in forme dissonanti rispetto allo schema legislativo).

4.3. - Tanto premesso, e avviando a soluzione il complesso coacervo di quesiti sollevati in premessa, deve in limine osservarsi che, se il recesso è non altro che una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che presuppone l'inadempimento della controparte, le interazioni rilevanti da esaminare sul piano normativo non sono tanto quelle tra il recesso stesso e le varie forme di risoluzione, quanto quella, pur collegata, tra azione di risarcimento ordinaria e domanda di ritenzione della caparra.

Si è condivisibilmente affermato, in proposito, che l'unica ragione per cui il contraente incolpevole (oltre che di buon senso) possa preferire la meno pervia strada della risoluzione alla più agevole manifestazione della volontà di recesso è evidentemente volta al proposito di conseguire un risarcimento (che egli auspica) maggiore rispetto all'importo della caparra (o del suo doppio).

Se un'alternativa si pone, allora, per la parte non inadempiente, questa non è tanto limitata ad una scelta (in realtà, del tutto fungibile quoad effecta) tra recesso e risoluzione, ma si estende necessariamente a quella tra l'incamerare la caparra (o il suo doppio), così ponendo fine alla vicenda negoziale, e l'instaurare un apposito giudizio per conseguire una più cospicua locupletazione, un più pingue risarcimento, una più congrua quantificazione di danni dei quali egli si riserva (fondatamente) di offrire la prova.

Ecco che l'analisi della prima relazione tra le azioni in esame comporta non tanto l'attribuire rilevanza alla pretesa antinomia risoluzione + risarcimento / recesso + ritenzione della caparra, una vera e propria alternatività (rectius, incompatibilità) esistendo piuttosto, sul piano morfologico, tra le due sole azioni "recuperatorie", quella, cioè, strettamente risarcitoria (la domanda di risarcimento danni) e quella più latamente satisfattiva (la ritenzione della caparra, sul cui carattere, in realtà, paraindennitario e non strettamente risarcitorio non è in questa sede lecito approfondire una riflessione).

Le (apparenti) problematiche afferenti ai rapporti tra le (sole) domande di risoluzione e di recesso non hanno, in realtà, al di là di aspetti formalistico/speculativi, autonoma rilevanza giuridica sostanziale: una domanda (principale) di risoluzione contrattuale correlata ad una richiesta risarcitoria contenuta nei limiti della caparra, oltre ad avere una rilevanza pressochè solo teorica (non si capisce perchè adire il giudice, potendo la parte stessa determinare l'effetto risolutorio in sede stragiudiziale, mentre diverso potrebbe risultare l'approccio in ipotesi di domanda riconvenzionale), non è altro (nonostante il contrario avviso di autorevole dottrina, che discorre di compatibilità tra domanda costitutiva di risoluzione giudiziale e risarcimento del danno nei limiti della caparra) che una domanda di accertamento dell'avvenuto recesso (e della conseguente risoluzione legale del contratto); una domanda di risoluzione avanzata senza il corredo di una ulteriore richiesta risarcitoria, rapportata o meno all'entità della caparra, avrà il solo scopo di caducare in via giudiziale il contratto senza ulteriori conseguenze economiche per la parte inadempiente (il che potrà accadere nell'ipotesi - invero assai rara - in cui la parte adempiente abbia il solo scopo di rendere definitivo l'accertamento della caducazione degli effetti del contratto, ma non voglia incamerare, per motivi di etica personale, la caparra ricevuta poichè, a seguito del primo inadempimento, egli ha potuto successivamente concludere un più lucroso affare e non intende ulteriormente speculare sulla vicenda), senza che, nel corso del giudizio, sia lecito introdurre complementari domande "risarcitorie" collegate (che risulterebbero del tutto nuove e pertanto inammissibili).

Il vero nodo da sciogliere, dunque, riguarda la relazione complessa tra le quattro possibili domande giudiziali, le prime due sinergicamente volte alla risoluzione e al risarcimento del danno, le seconde, proposte in una diversa fase o (come nella specie) in undiverso grado di giudizio, funzionali alla declaratoria di recesso con ritenzione della caparra.

Ed è soltanto con riferimento a questa ipotesi che la questione va risolta analizzando, peraltro, non (soltanto) la interazione risoluzione/recesso, bensì quella tra risarcimento e ritenzione di caparra.

Vero che il recesso non è che un'altra forma di risoluzione ex lege (ciò che apparentemente legittimerebbe le pronunce che escludono il carattere di novità di quelle domande che abbiano trasformato la richiesta di risoluzione in istanza di declaratoria di recesso, orbitando entrambe intorno al medesimo asse costituito dall'inadempimento di controparte), resta da stabilire se tale fungibilità sia, o meno, legittimamente esportabile ai rapporti tra le due connesse azioni lato sensu risarcitorie.

E' convincimento di queste sezioni unite che la risposta al quesito debba essere negativa, e che del tutto destituita di fondamento (benchè suggestivamente sostenuta in dottrina e motivatamente fatta propria da una recente giurisprudenza di legittimità e di merito) risulti la teoria della caparra intesa quale misura minima del danno risarcibile da riconoscersi comunque alla parte non inadempiente benchè questa si sia avvalsa, in sede di introduzione del giudizio, dei rimedi ordinari di tutela.

4.4. - Come opportunamente e condivisibilmente rilevato da una recente dottrina che ha esaminato funditus la questione, l'art. 1385 c.c., comma 3, nell'accordare alla parte non inadempiente la facoltà di avvalersi della tutela risolutoria ordinaria, non ha in alcun modo previsto la risarcibilità del maggior danno, quanto piuttosto il risarcimento integrale del danno subito (se provato), secondo un meccanismo (processuale) ormai del tutto indipendente dalla precedente liquidazione convenzionale (e stragiudiziale).

Di qui l'ulteriore connotazione della sinergia necessaria tra azione risolutoria e azione risarcitoria: attraverso la loro congiunta proposizione, la parte tende ad ottenere un risarcimento integrale secondo le norme generali in tema di inadempimento, e non si determina ad invocare e conseguire l'eventuale differenza tra l'importo convenzionalmente "risarcitorio" rappresentato dalla caparra, da un canto, e il danno effettivamente sofferto (ma da provare), dall'altro.

L'esame comparato tra la norma posta dal legislatore in tema di caparra e quella dettata in tema di clausola penale conferma la bontà di tale riflessione.

Soltanto in tema di clausola penale, difatti, il legislatore ha contemplato, per la parte (sia pur previo patto espresso), la facoltà di agire in giudizio per la risarcibilità del danno ulteriore, con ciò presupponendosi che la somma dovuta a titolo di penale risulti comunque acquisita al patrimonio dell'adempiente, il quale ha la ulteriore facoltà di provare ad incrementare la posta risarcitoria tutte le volte che, in giudizio, egli sia in grado di provare l'ulteriore danno sofferto.

Le stesse regole operazionali risultano del tutto assenti (e dunque del tutto impredicabili) in tema di caparra confirmatoria, poichè risarcibilità del danno ulteriore e risarcibilità del danno effettivo postulano l'operatività di ben diversi meccanismi di tutela, diversamente disciplinati dal legislatore (la differenza viene acutamente colta ed efficacemente esplicitata in una assai risalente sentenza di merito: secondo la corte di appello di Cagliari - la sentenza è del 24 ottobre 1946 -, difatti, "dal raffronto tra l'art. 1382 - ove, a proposito della clausola penale, è espressamente contemplata la facoltà delle parti di convenire la risarcibilità del danno ulteriore, e l'art. 1385, u.c., per giungere alla conclusione che, se in quest'ultima disposizione il legislatore non credette di ripetere l'identica espressione dell'art. 1382 ma fece invece richiamo alle norme generali sul risarcimento, fu perchè volle una distinzione tra le due fattispecie").

Vanno considerate, ancora, ad ulteriore conferma della correttezza della soluzione adottata:

- la evidente disomogeneità "genetica" tra il ristoro conseguente all'incameramento della caparra o del suo doppio - ristoro che in nulla pare assimilabile al meccanismo risarcitorio tipico, e che addirittura prescinde da qualsiasi prova ed esistenza stessa di un danno - e il risarcimento del danno vero e proprio, conseguito secondo le normali regole probatorie, danno la cui riparazione non può che essere integrale, ai sensi dell'art. 1223 c.c. (in esso ricompresi, oggi, secondo quanto condivisibilmente affermato da Cass. ss. uu. 26972/08, anche i pregiudizi non patrimoniali incidenti su diritti inviolabili della persona, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1174, 1218 e 1223 c.c.);

- la speculare difformità funzionale tra i due rimedi, la domanda di ritenzione della caparra (o di richiesta del suo doppio) essendo pretesa fondata su una causa petendi affatto diversa da quella riconnessa all'azione di risarcimento.

Proprio la finalità di liquidazione immediata, forfetaria, stragiudiziale, posta nell'interesse di entrambe le parti, viene irredimibilmente esclusa dalla pretesa giudiziale di un maggior danno da risarcire (e provare), poichè la semplificazione stragiudiziale del procedimento di ristoro conseguente alla sola ritenzione della caparra tramonta, inevitabilmente e definitivamente, al cospetto delle barriere processuali sorte per effetto di una domanda dalla natura strettamente risarcitoria, e perciò solo del tutto alternativa;

- il dato testuale dell'art. 1385 c.c., comma 3, che, nell'offrire una precisa alternativa alla parte adempiente, nulla dispone in ordine alla possibilità del creditore di disattendere la generale regola, sostanziale e processuale, secondo cui electa una via non datur recursus ad alteram.

Proprio il richiamo "alle norme generali" va inteso nel senso che il creditore ha diritto al risarcimento integrale se riesce a dimostrare il danno, così restando escluso il diritto di modificare la pretesa, a meno di non voler poi disapplicare proprio quelle "norme generali", ovvero applicarle in un'ottica di indiscriminato favor per il creditore, secondo una sua personale convenienza valutata a posteriori, priva di alcun serio bilanciamento di interessi tra le parti; - generali considerazioni di economia processuale, oltre che di corretto bilanciamento degli interessi in gioco, secondo cui, da un canto, chi agisce in giudizio per la risoluzione è mosso dal proposito di conseguire un ristoro patrimoniale più cospicuo, e pertanto "rinuncia al certo per l'incerto" affrontando peraltro l'alea (e l'onere) della prova dell'an e del quantum del pregiudizio sofferto, con il rischio (a suo carico) che il danno risulti inferiore a quanto pattuito con la caparra (o addirittura inesistente); dall'altro, chi ammette una fungibilità tra le azioni lato sensu risarcitorie ignora che ciò si risolverebbe nella indiscriminata e gratuita opportunità di modificare, per ragioni di mera convenienza economica, la strategia processuale iniziale dopo averne sperimentato gli esiti, trasformando il processo in una sorta di gioco d'azzardo "a rilancio senza rischio"; dall'altro ancora, soltanto l'esclusione di una inestinguibile fungibilità tra rimedi consente di evitare situazioni di abuso e rende il contraente non inadempiente doverosamente responsabile delle scelte operate, impedendogli di sottrarsi ai risultati che ne conseguono, quando gli stessi non siano corrispondenti alle aspettative che ne hanno dettato la linea difensiva; - la più rigorosa osservanza di precetti costituzionali, così perseguendosi l'ulteriore approdo, in armonia con il nuovo dettato dell'art. 111 Cost. (e resistendo alla suggestione di dover sempre preservare, oltre ogni ragionevolezza, la posizione della parte non inadempiente) di evitare rilevanti diseconomie processuali: oltre all'apprezzabile risultato di disincentivare il contenzioso attraverso il divieto di qualsiasi mutatio actionis in corso di giudizio, non va dimenticato come le domande di risoluzione e di risarcimento comportino spesso, sul piano probatorio, un'intensa e defatigante attività per le parti e per il giudice, e un inopinato mutamento delle pretese creditorie vanificherebbe il contenuto stesso di tali attività, legittimando un'esigenza di parte fondata sulla sola circostanza di non trovare più conveniente proseguire nel cammino processuale inizialmente scelto.

Si aprirebbero cosi pericolosi varchi a ben poco fondate richieste giudiziali, favorendo liti il più delle volte temerarie introdotte da chi, certo di un commodus discessus processuale costituito dalla inestinguibile facoltà di rivitalizzare una domanda di recesso con ritenzione della caparra, si sentirebbe legittimato a tentare in ogni caso una pur assai improbabile demonstratio di aver subito maggiori danni "a costo zero". 4.5. - Dalle considerazioni sinora esposte discende la ulteriore, inevitabile conseguenza per cui l'originaria domanda di (sola) risoluzione non può ritenersi legittimamente convertibile, in sede di appello, in domanda di (solo) recesso, e ciò non solo e non tanto per i numerosi motivi di sistema indicati, sul piano della morfologia delle azioni, dalla più recente dottrina (cui in precedenza si è fatto cenno), ma soprattutto perchè tale modifica potrebbe risultare callidamente e surrettiziamente funzionale a riattivare il meccanismo legale di cui all'art. 1385 c.c., comma 2 (al recesso consegue, ex lege, il diritto alla ritenzione della caparra), ormai definitivamente caducato per via delle preclusioni processuali definitivamente prodottesi a seguito della proposizione della domanda di risoluzione sic et simpliciter.

Specularmene inammissibile deve ritenersi la domanda di risoluzione giudiziale introdotta dopo essersi avvalsi della tutela speciale ex art. 1385 c.c., comma 2, intanto perchè, dopo aver esercitato il diritto di recesso, il contratto è già risolto, ma soprattutto poichè, ancora una volta, con tale trasformazione si cercherebbe surrettiziamente di ampliare l'ambito risarcitorio in sede processuale, dopo aver incamerato la caparra, indirizzandolo verso una più pingue (ma ormai intempestiva) richiesta di risarcimento integrale.

4.6. - Quanto, infine, alla questione della rinunciabilità all'effetto risolutorio da parte dei contraente non inadempiente, gli argomenti addotti in dottrina appaiono, a giudizio di queste sezioni unite, meritevoli di ingresso nella giurisprudenza di questa corte.

A fondamento di tale revirement (sia pur connesso solo indirettamente alla decisione del caso in esame), va difatti osservato:

- che il tenore strettamente letterale della norma di cui all'art. 1454 collega alla inutile scadenza del termine contenuto in diffida un effetto automatico, verificandosi la risoluzione al momento stesso dello spirare del dies ad quem indicato dal diffidante.

Gli stessi meccanismi operativi previsti per le altre fattispecie di risoluzione legale confortano tale conclusione, poichè clausola risolutiva espressa e termine essenziale partecipano, sincronicamente, del medesimo aspetto genetico della convenzione negoziale, postulando, per loro stessa natura, la necessità (clausola risolutiva) o la possibilità (termine essenziale) di una ulteriore manifestazione di volontà da parte del non inadempiente che, alla luce dei diacronici sviluppi del rapporto contrattuale, potrebbe farsi portatore di un interesse diverso, rispetto alla risoluzione, nel tempo del verificatosi inadempimento.

La diffida, coevamente comunicata alla controparte già nel momento (patologicamente) funzionale del rapporto, contiene invece in sè già tutti gli elementi di valutazione di una situazione attuale e attualizzata, in termini di interesse, in capo al diffidante;

che il collegamento tra la essenzialità del termine contenuto nella diffida e la (peraltro non pacifica) esclusività dell'interesse dell'intimante attiene, in realtà, all'atto di diffida ma non all'effetto risolutorio, che la norma ex art. 1454 c.c. mostra di considerare automatico, perseguendo la non discutibile funzione di bilanciamento di interessi contrapposti, a tutela anche della parte che, allo spirare del termine, abbia posto un affidamento legittimo nell'avvenuta cessazione degli effetti del negozio;

- che la perdurante disponibilità dell'effetto risolutorio in capo alla parte non inadempiente risulterebbe, in assenza di qualsivoglia disposizione normativa "limitativa" (quale quella dettata, ad esempio, in tema di remissione del debito), operante sine die, in evidente contrasto con gli analoghi meccanismi di risoluzione legale collegati al termine essenziale e al relativo adempimento tardivo, così generandosi, sotto altro profilo, una ingiustificata e sproporzionata lesione all'interesse del debitore, il cui ormai definitivo affidamento nella risoluzione (e nelle relative conseguenze) del contratto inadempiuto potrebbe indurlo, non illegittimamente, ad un conseguente riassetto della propria complessiva situazione patrimoniale;

- che la stessa ratio legis sottesa al più generale meccanismo della risoluzione giudiziale (art. 1453 c.c.) appare principio di portata assai più ampia (e dunque legittimamente esportabile anche nel parallelo sottosistema della risoluzione legale) dacchè permeato dell'evidente funzione di accordare (moderata) tutela anche alla parte non adempiente che, assoggettata ad un'iniziativa volta alla caducazione del contratto, non può più essere, ex lege, destinataria di una successiva richiesta di adempimento (in una vicenda in cui, si badi, la definizione dell'effetto risolutorio è ancora in itinere, destinata com'è a formare oggetto di accertamento processuale in contraddittorio), onde porsi volontariamente (ma del tutto legittimamente) in condizione di non poter più adempiere.

Se la proposizione di una domanda giudiziale di risoluzione implica l'assenza di interesse del creditore all'adempimento e il conseguente acquisto, da parte del debitore, di una sorta di "diritto a non adempiere", non v'è ragione di escludere che la stessa ratio (di cui è d'altronde traccia dalla stessa relazione al codice) non debba informare anche la speculare vicenda della diffida ad adempiere, in entrambi i casi risultando espressa inequivocabilmente la mancanza di interesse all'adempimento intempestivo;

- che la natura di negozio unilaterale recettizio della diffida non pare utile a legittimare la (non conferente) conseguenza della disponibilità dell'effetto risolutivo.

Soccorrono, al riguardo, disposizioni normative, come quelle di cui all'art. 1723 c.c. in tema di irrevocabilità del mandato (anche) in rem propriam, che lasciano chiaramente intendere come la più generale filosofia ispiratrice del codice del 42, quella, cioè, della tutela dell'affidamento incolpevole, trovi necessario spazio e puntuale attuazione tutte le volte in cui l'unilateralità dell'atto incida significativamente anche sugli interessi del destinatario;

- che, in definitiva, la concezione dell'effetto risolutivo disponibile in capo al creditore pare figlia di una ideologia fortemente punitiva per l'inadempiente, si atteggia a mò di sanzione punitiva senza tempo, assume forme di (ingiustificata) "ipertutela" del contraente adempiente, del quale si legittima ogni mutevole e repentino cambiamento di "umore" negoziale.

4.7. - Vanno, pertanto, affermati (a soluzione delle questioni proposte supra, sub 2.1) i seguenti principi di diritto:

a) I rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra dall'altro si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra perchè (a prescindere da quanto già detto e ancora si dirà di qui a breve in ordine ai rapporti tra la sola azione di risoluzione e la singola azione di recesso non connesse alle relative azioni "risarcitorie") verrebbe così a vanificarsi la stessa funzione della caparra, quella cioè di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non inadempiente di "scommettere" puramente e semplicemente sul processo, senza rischi di sorta;

b) L'azione di risoluzione avente natura costitutiva e l'azione di recesso si caratterizzano per evidenti disomogeneità morfologiche e funzionali: sotto quest'ultimo aspetto, la trasformazione dell'azione risolutoria in azione di recesso nel corso del giudizio lascerebbe in astratto aperta la strada (da ritenersi, invece, ormai preclusa) ad una eventuale, successiva pretesa (stragiudiziale) di ritenzione della caparra o di conseguimento del suo doppio (con evidente quanto inammissibile rischio di ulteriore proliferazione del contenzioso giudiziale);

c) Azione di risoluzione "dichiarativa" e domanda giudiziale di recesso partecipano della stessa natura strutturale, ma, sul piano operativo, la trasformazione dell'una nell'altra non può ritenersi ammissibile per i motivi, di carattere funzionale, di cui al precedente punto b);

d) La rinuncia all'effetto risolutorio da parte del contraente non adempiente non può ritenersi in alcun modo ammissibile, trattandosi di effetto sottratto, per evidente voluntas legis, alla libera disponibilità del contraente stesso;

e) I rapporti tra l'azione di risarcimento integrale e l'azione di recesso, isolatamente e astrattamente considerate, sono, a loro volta, di incompatibilità strutturale e funzionale;

f) La domanda di ritenzione della caparra è legittimamente proponibile, nell'incipit del processo, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalla parte nell'introdurre l'azione "caducatoria" degli effetti del contratto: se quest'azione dovesse essere definita "di risoluzione contrattuale" in sede di domanda introduttiva, sarà compito del giudice, nell'esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e qualificazione in iure della domanda stessa, convenirla formalmente in azione di recesso, mentre la domanda di risoluzione proposta in citazione, senza l'ulteriore corredo di qualsivoglia domanda "risarcitoria", non potrà essere legittimamente integrata, nell'ulteriore sviluppo del processo, con domande "complementari", nè di risarcimento vero e proprio nè di ritenzione della caparra, entrambe inammissibili perchè nuove.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese (che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate, attesa la complessità e la natura controversa delle questioni trattate) segue come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2009 
 

 

 

 

 

 


VENDITA DI COSA FUTURA

Il contratto riguardante la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell'obbligo del cedente - che sia proprietario anche del terreno su cui l'erigendo fabbricato insisterà - di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l'effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (il suolo, con conseguente effetto traslativo immediato dello stesso) e dell'appalto, a seconda che assuma rilievo centrale, nel sinallagma contrattuale, l'intento delle parti avente ad oggetto il conseguimento della proprietà dell'immobile completato ovvero il trasferimento della proprietà attuale del suolo e l'attività realizzatrice dell'opera da parte del cedente, a proprio rischio e con la propria organizzazione. (Cassa e dichiara giurisdizione, App. Catanzaro, 13 Febbraio 2006)

 

 

 

 

  
Cass. civ. Sez. Unite Sent., 12-05-2008, n. 11656

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società Hermes s.r.l. con citazione notificata il 17.4.2003, conveniva davanti al Tribunale di Catanzaro la regione Calabria per sentirla condannare al pagamento della somma di Euro 21.179.800,00, oltre accessori, a titolo di responsabilità precontrattuale, o, in subordine, al pagamento della somma di Euro 6.507.300,00, oltre accessori, a titolo di indebito arricchimento per l'acquisizione di elaborati contrattuali.

Assumeva l'attrice che era proprietaria di un terreno in località (OMISSIS), su cui aveva diritto, in forza di convenzione con il Comune, a realizzare un complesso edilizio composto da 418 alloggi; che la regione Calabria con Delib. Giunta 16 ottobre 2001, n. 873, pubblicava sulla G.U. un avviso al fine di esperire una ricerca di mercato finalizzata all'acquisizione in locazione con eventuale opzione di acquisto, ovvero all'acquisto anche per cosa futura e/o mediante leasing di un complesso immobiliare esistente o da realizzare in (OMISSIS) da destinare agli uffici regionali; che l'offerta presentata da essa Hermes per la costruzione di un complesso immobiliare con tali caratteristiche veniva giudicata come la più idonea da apposita commissione; che, con Delib. 4 novembre 2002, la Giunta regionale approvava la stipulazione di un contratto di compravendita del complesso immobiliare da costruire, in base ad allegato schema contrattuale, al quale l'attrice dichiarava di aderire; che con Delib. 17 dicembre 2002, n. 1238, la giunta regionale ritirava la precedente deliberazione e con Delib. 27 dicembre 2002, n. 1239, manifestava la propria intenzione di procedere all'acquisto dell'area ed - in mancanza all'espropriazione, realizzando successivamente il complesso immobiliare con la procedura di finanza di progetto di cui alla L. n. 109 del 1994, art. 37 bis; che essa attrice, riservandosi ogni azione per i danni subiti dalle determinazioni regionali, cedeva l'area con atto notarile, in vista della possibilità di esperire una procedura di finanza di progetto nel termine del 28.2.2003; che, essendo inutilmente scaduto tale termine, si vedeva costretta ad adire il tribunale per il risarcimento del danno da responsabilità contrattuale provocato della regione, ex art. 1337 c.c., per avere quest'ultima ingiustificatamente rifiutato di stipulare il contratto di vendita di cosa futura, pur avendo ingenerato in essa attrice un affidamento che l'aveva indotta a sopportare ingenti spese di progettazione ed a rinunziare alla realizzazione del complesso edilizio residenziale, ed in via gradata per il danno da indebito arricchimento per aver la regione utilizzato gli elaborati progettuali e di studio da essa attrice predisposti.

Si costituiva la Regione Calabria, che resisteva alla domanda, eccependo, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione.

Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza n. 46/2005, dichiarava il difetto di giurisdizione dell'AGO in favore del giudice amministrativo.

Su appello della s.r.l. Kermes, la corte di appello di Catanzaro, con sentenza n. 46 del 13.2.2006, rigettava l'appello.

Riteneva la corte di merito che, nonostante il contrario assunto dell'appellante, la sua domanda risarcitoria si riconnetteva all'emanazione di atti amministrativi (delibere del 17 e del 27.12.2002), con cui veniva ritirata in autotutela per vizi di legittimità (violazione di normativa comunitaria e di contabilità pubblica) la Delib. novembre 2002 ed erano disposti l'acquisizione dell'area ed il project financing; che nella fattispecie la regione aveva dato corso ad una "procedura di affidamento di lavori, servizi o forniture"; che la regione era tenuta nella scelta del contraente all'applicazione della normativa comunitaria o al rispetto del procedimento di evidenza pubblica; che la regione aveva indetto una pubblica gara finalizzata all'acquisto di immobili da destinare ad uffici regionali; che le offerte erano state valutate da una commissione; che nella specie era, quindi, applicabile la L. n. 205 del 2000, art. 6 che conferisce al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva nelle ipotesi di affidamento di lavori; che nella fattispecie; trattandosi di esecuzione di opera rispondente ad esigenze della P.A. aggiudicatrice, doveva ritenersi che trattavasi di appalto pubblico di lavoro; che nella fattispecie il contratto allegato alla Delib. 4 novembre 2002, n. 119 aveva solo il nomen iuris di vendita di cosa futura, trattandosi invece di appalto di opera pubblica, poichè era previsto un acconto in corso d'opera, un termine di ultimazione dei lavori e che gli impianti tecnici fossero eseguiti a regola d'arte.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Hermes s.r.l..

Resiste con controricorso la regione Calabria.

Entrambe le parti hanno presentato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi generali in materia di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e delle norme di cui agli artt. 2043 e 1337 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3.

Assume la ricorrente che nel caso di specie non viene in contestazione la legittimità di atti amministrativi, ma soltanto che, avendo la regione agito iure privatorum, a seguito di un avviso di ricerca di mercato, abbia poi omesso di dar corso alla stipulazione del contratto di compravendita di cosa futura, nonostante l'affidamento ingenerato in ordine alla conclusione di tale contratto, con violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nell'ambito delle trattative contrattuali, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, in difetto di ipotesi di affidamento dei lavori, rientrante nella L. n. 205 del 2000, art. 6. 2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, e dell'art. 11 della direttiva 93/37 CEE, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.

Ritiene la ricorrente che erroneamente nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che si vertesse in ipotesi di affidamento di un appalto pubblico di lavori, le cui controversie rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, poichè la regione non ha predisposto alcun bando di gara, secondo i requisiti e modalità di cui all'art. 11 direttiva 93/37 CEE, ma solo un "avviso in funzione di ricerca di mercato per una locazione con successiva opzione di riscatto ovvero per un acquisto di cose future o per una locazione finanziaria"; che l'avviso non era impegnativo per l'Ente, come espressamente indicato; che sono irrilevanti gli elementi valorizzati dalla sentenza, secondo cui vi era un'apposta commissione di valutazione delle offerte (in quanto tutta la procedura aveva carattere atipico ed informale) e vi furono successivi atti deliberativi della regione (rientrando gli stessi tra gli atti interni di formazione della volontà contrattuale).

3. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 205 del 2000, art. 6, degli artt. 1362, 1363 e 1472 c.c., della L. n. 104 del 1994, art. 2, comma 1, e dell'art. 1, comma 1, lett. a) direttiva 93/37 CEE, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.

Assume la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che nella fattispecie il contratto che le parti volevano stipulare era un contratto di appalto, mentre in effetti si trattava di contratto di vendita di cosa futura, tenuto conto che le aree su cui doveva essere realizzata l'opera erano di proprietà della Hermes; che era assente l'elemento del facere, caratterizzante il contratto di appalto, mentre nella fattispecie la prestazione consisteva in un dare (la cosa futura e l'area su cui insisteva).

Secondo la ricorrente la corte di merito avrebbe erroneamente attribuito rilevanza ad elementi non incompatibili con il contratto di vendita di cosa futura, e cioè alla previsione di un acconto, del termine di ultimazione dei lavori e dell'obbligo che gli impianti fossero eseguiti a regola d'arte.

Assume la ricorrente che dal contratto, e segnatamente dagli artt. 2, 3 e 4, emerge con chiarezza che si trattava di contratto di acquisto di cosa futura, con conseguente esclusione dell'applicabilità della L. n. 205 del 2000, art. 6 e della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

4.1. I tre motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Con la domanda principale l'attrice ha richiesto la condanna della regione al risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale a norma dell'art. 1337 c.c..

Con la domanda subordinata l'attrice ha richiesto la condanna della convenuta all'indennizzo per arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c..

Il giudice di primo grado ha affermato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Il giudice di secondo grado ha rigettato l'appello, pronunziandosi esclusivamente sulla giurisdizione in merito alla domanda risarcitoria per responsabilità precontrattuale.

Nessuna pronunzia la corte territoriale ha emesso in merito all'affermata giurisdizione amministrativa per l'azione di arricchimento senza causa ed il punto non è stato oggetto di ricorso per cassazione.

4.2. L'affermazione della giurisdizione è stata fondata dal giudice di appello su tre rilievi:

a) la pretesa risarcitoria si riconnetteva all'emanazione di atti amministrativi, cioè alle delibere n. 1238 e 1239 del 2002, di ritiro della precedente deliberazione di approvazione dello schema contrattuale di vendita di cosa futura;

b) nella fattispecie era applicabile la L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, trattandosi di affidamento di lavori; e) il contratto, relativamente al quale era ipotizzata la responsabilità precontrattuale, costituiva un contratto di appalto e non di vendita di cosa futura.

Va, anzitutto, premesso che con la Delib. n. 873 del 2001 relativa alla ricerca di mercato per l'acquisizione(sia pure attraverso varie formule) di un complesso edilizio e con quella del 4.11.2002, n. 1010, di approvazione della stipulazione del contratto di compravendita secondo lo schema contrattuale allegato, l'amministrazione effettuava la scelta di operare iure privatorum, secondo valutazioni di sua competenza che si inquadravano nei poteri conferitile dalla L. n. 241 del 1990, art. 1.

Avendo ad oggetto tali delibere la ricerca e poi l'acquisizione di un complesso edilizio sul libero mercato si è fuori dalla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 33 come modificato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7.

Quanto al primo punto, su cui si basa la statuizione della sentenza impugnata, va osservato, ai fini della giurisdizione, che la controversia non investe la legittimità di atti amministrativi posti in essere dalla regione:

la ricorrente infatti non lamenta che alcuna delle delibere indicate sia illegittima ovvero che non sia stata data esecuzione a quelle delibere.

Le deliberazioni sono riportate come momento formativo della volontà dell'ente, la quale, per effetto di tali delibere, prima si era formata nel senso di addivenire alla stipulazione di un contratto di acquisto di cosa futura e successivamente nel senso contrario per l'acquisto (o espropriazione) della sola area e per la successiva realizzazione dell'opera con la procedura della finanza di progetto.

La ricorrente appunto lamenta che in un primo momento l'ente aveva trattato per un contratto di acquisto di cosa futura ed in questo senso aveva creato un affidamento nella conclusione di tale contratto e che in un momento successivo aveva interrotto la fase di conclusione, a suo parere ingiustificatamente.

La domanda, quindi, si fonda, come previsto dal paradigma normativo di cui all'art. 1337 c.c., sul comportamento tenuto nei confronti di essa attrice dalla contraente regione nella fase formativa del contratto, per quanto in esecuzione di dette delibere.

4.3. Osserva questa Corte che il punto relativo al "se ed in quali termini tali delibere potessero legittimamente realizzare l'affidamento assunto dell'attrice e giustificare il comportamento della regione di interruzione della contrattazione" è questione che può attenere al merito della controversia sulla pretesa responsabilità precontrattuale, ma non alla giurisdizione.

La domanda risarcitoria proposta dall'attuale appellante prescinde dalla demolizione giuridica di determinazioni amministrative, in quanto ciò che si controverte attiene al danno (asseritamente) subito dalla Società attrice in base ad un contegno posto dall'Amministrazione in violazione delle regole che tutelano il legittimo affidamento delle parti in una trattativa precontrattuale.

5.1. Si pone quindi la questione della responsabilità precontrattuale della P.A..

La giurisprudenza solo con la sentenza n. 1675/1961 delle SS. UU. della Cassazione riconobbe la configurabilità della responsabilità precontrattuale in capo alla Pubblica amministrazione, affermando che compito del giudice di merito non è quello di valutare se il soggetto amministrativo sia stato un corretto amministratore, bensì se sia stato un corretto contraente.

Il limite fondamentale di questa prima - pur importante - pronuncia fu quello di ritenere sussistente la culpa in contrahendo della Pubblica amministrazione in caso di recesso senza giustificato motivo da una trattativa privata (c.d. pura), cioè solo nei casi in cui la Pubblica amministrazione si spoglia dei propri poteri pubblicistici ed opera come un qualunque altro soggetto (con la conseguenza che nelle ipotesi successivamente sempre più ricorrenti - a seguito delle impostazioni di matrice comunitaria - di trattativa privata preceduta da gara informale non potevano applicarsi i principi civilistici della culpa in contrahendo).

Per le procedure di gara (aperte o ristrette), invece, la giurisprudenza continuava ad operare un distinguo: in particolare, se l'illecito era avvenuto prima o dopo l'aggiudicazione. La giurisprudenza riteneva, infatti, che la responsabilità poteva essere affermata solo dopo l'aggiudicazione di una gara.

Questa Corte, nel negare la qualità di contraente al mero partecipante alla gara, anteriormente all'aggiudicazione (donde l'affermazione della normale non applicabilità, in tale fase, della responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 1337 c.c.) ha tuttavia ammesso che, una volta intervenuta l'aggiudicazione, l'aggiudicatario dovesse ormai ritenersi parte a tutti gli effetti (Cass., SS.UU. civ., 26 maggio 1997 n. 4673).

Già prima delle innovazioni del 1998-2000 la giurisprudenza era, dunque, approdata alla conclusione della possibilità dell'applicazione delle regole in tema di responsabilità precontrattuale alla Pubblica amministrazione committente, ancorchè solo dopo l'aggiudicazione, nella fase intercorrente tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto.

Il dibattito sull'ammissibilità della responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione nell'ambito dell'attività negoziale si è arricchito a seguito delle note riforme del 1998-2000.

Un'ulteriore spinta innovativa è derivata dalla nota pronuncia n. 500/1999 di queste Sezioni Unite sulla risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi.

5.2. Si ammette oggi pacificamente la configurabilità di una responsabilità precontrattuale a carico anche della P.A., poichè anche a suo carico grava l'obbligo giuridico sancito dall'art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative, perchè con l'instaurarsi delle medesime sorge tra le parti un rapporto di affidamento che l'ordinamento ritiene meritevole di tutela.

Pertanto, se durante tale fase formativa del negozio una parte viola il dovere di lealtà e correttezza ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l'affidamento della controparte (anche colposamente, in quanto non occorre un particolare comportamento oggettivo di malafede, nè la prova dell'intenzione di arrecare pregiudizio all'altro contraente) in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale.

Invero - pur trascurando in questa primo approccio, l'indagine circa la possibilità di qualificare il rapporto de quo in termini di appalto pubblico di lavori, servizi o forniture - è assorbente il rilievo che la pretesa risarcitoria va posta nel quadro dell'art. 2043 c.c. (al quale il precetto dell'art. 1337 c.c. si collega).

La giurisdizione, quindi, ove si dovesse riscontrare che manchi una norma attributiva al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva nella materia in esame, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario senza che assuma rilievo la qualificazione della situazione giuridica dedotta in giudizio come diritto soggettivo o interesse legittimo, in forza dei principi affermati da queste S.U. con sentenza 22 luglio 1999, n. 500 (Cass. S.U. 19.11.2002, n. 16319;

Cass. S.U. 22.6.2003; Case. 16.7.2001, n. 9645).

6.1. Nella fattispecie la domanda è successiva alla data di entrata in vigore della L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, (art. successivamente abrogato dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 256 ma riprodotto in forma pressochè analoga, nel D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 244 - Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture).

Tale norma statuisce che: "Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale".

Ne consegue che, per effetto di tale norma, è stata configurata una giurisdizione esclusiva in favore del giudice amministrativo anche per l'azione di risarcimento per responsabilità precontrattuale nelle procedure di affidamento di contratti di appalto di lavori, servizi o forniture, da parte di soggetti tenuti nella scelta del contraente all'applicazione della normativa comunitaria o al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica (cfr. Cass. S.U. n. 16319/2002;

Cass. S.U. 18/10/2005, n. 20116; Cons. Stato sez. 5^, n. 7194/2006).

6.2. Tale giurisdizione esclusiva per l'azione di responsabilità precontrattuale non è invece ravvisabile in tema di contratto di compravendita di immobile, in mancanza di una norma specifica.

Nessuna delle direttive comunitarie vigenti al momento dei fatti posti a base della domanda (92/50 in materia di appalti di servizi, 93/36 in materia di appalti di forniture, 93/37 in materia di appalti di lavori), assoggettava alla propria disciplina la compravendita di edifici esistenti.

Sulla stessa linea si è mossa la normativa nazionale di recepimento.

Si consideri, ad esempio, che il D.Lgs. n. 157 del 1995, art. 5, lett. a), esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione i contratti aventi ad oggetto l'acquisizione o la locazione, indipendentemente dalle modalità finanziarie, di terreni o edifici esistenti.

7.1. Il problema che si pone è quindi quello di individuare se nella fattispecie il, contratto in fieri tra le parti, di cui si lamenta l'interruzione delle trattative, costituisca un contratto di compravendita di cosa futura (nel qual caso sussisterebbe la giurisdizione del giudice ordinario) o un contratto di appalto di lavori pubblici (nel qual caso sussisterebbe la giurisdizione esclusiva del G.A.).

Nel nostro ordinamento non vige il sistema del nec ultra vires (che caratterizza invece l'attività delle persone giuridiche di diritto pubblico nel sistema anglosassone) e, pertanto, sia le persone giuridiche pubbliche che private hanno la medesima capacità giuridica, per cui la p.a. può porre in essere contratti di diritto privato in assenza di specifici divieti.

A tal fine va osservato che l'acquisto di cosa futura è un istituto che non solo opera in deroga alla normativa generale in materia di appalti pubblici, ma, addirittura, si pone in alternativa all'appalto di opera pubblica, che resta il sistema ordinario per l'acquisizione di opere di pertinenza pubblica.

Sicchè, l'esperibilità della vendita di cosa futura da parte della pubblica amministrazione, pur essendo ammissibile in astratto, in concreto è condizionata dalla ricorrenza di situazioni eccezionalissime e dalla necessità - dettata dalla finalità di evitare intenti elusivi del principio tendenziale e generale del procedimento d'appalto - che l'amministrazione valuti preventivamente la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie di realizzazione delle opere pubbliche (Cons. Stato 1.3.2005, n. 816).

Infatti il Cons. Stato, (Ad. Gen.), 17/02/2000, n. 2, ha ritenuto che l'istituto della compravendita di cosa futura non è stato espunto dall'ordinamento con il sopravvenire della più recente legislazione sui lavori pubblici, salvo verificare se, in concreto, l'amministrazione abbia stipulato un contratto di vendita o di appalto.

E' quindi ammissibile il ricorso alla compravendita di cosa futura, ma solo nei ristrettissimi limiti in cui l'opera da acquisire costituisca, secondo un ampiamente motivato e documentato apprezzamento dell'amministrazione, un bene infungibile, con riguardo alle sue caratteristiche strutturali e topografiche, ovvero un "unicum" non acquisibile in altri modi, ovvero a prezzi, condizioni e tempi inaccettabili per il più solerte perseguimento dell'interesse pubblico.

Ne consegue la necessità che l'amministrazione valuti preventivamente la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie di realizzazione delle opere pubbliche, e ove ne verifichi la non praticabilità in relazione a specialissime, motivate e documentate esigenze di celerità, funzionalità ed economicità, potrà scegliere di acquisire l'immobile secondo il meccanismo della compravendita.

7.2. Occorre, quindi, esaminare se nella fattispecie il contratto in fieri avesse ad oggetto un appalto o una vendita di cosa futura.

A tal fine va ribadito che di nessun rilievo è, ai fini della giurisdizione, accertare se sussistevano le condizioni per la Regione per poter utilizzare il contratto di compravendita di cosa futura, per poter procedere in autotutela a "ritirare" la delibera che aveva dato inizio ai contatti, e se la controparte avesse conoscenza di eventuali illegittimità procedimentali e quale rilievo ciò avesse nella fattispecie.

In questa sede relativa all'accertamento della pretesa violazione dei principi sulla giurisdizione, occorre solo acclarare se il contratto in corso di formazione in questione integrasse un contratto di appalto di lavori o di compravendita di cosa futura, poichè solo questo determina l'applicabilità o meno della giurisdizione esclusiva del GA, anche per la responsabilità precontrattuale.

7.3. Comunemente si sostiene che la vendita ha per oggetto un dare, mentre l'appalto ha per oggetto un facere.

La prima è diretta ad un trasferimento, mentre il secondo è inteso in primis alla produzione di un opus, mediante un'attività elaboratrice.

L'uno presuppone l'esistenza attuale della cosa;

l'altro l'inesistenza ed è posto in essere per produrla.

Il problema si complica allorchè si tratta di vendita di cosa futura (art. 1472 c.c.) e cioè di bene non ancora esistente, segnatamente allorchè si tratti un prodotto d'opera non ancora realizzato e per l'esistenza del quale occorre l'attività strumentale positiva dell'alienante.

Anche in relazione a questo tipo di vendita si ritiene dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza che si versi in ipotesi di contratto ab inizio perfetto, ricorrendo in esso tutti gli elementi essenziali del contratto, ma ad effetti obbligatori, poichè il momento traslativo sussisterà solo allorchè la cosa sia venuta ad esistenza: l'esigenza di tutelare il compratore contro il rischio del perimento dell'opera che si trovi ancora nella sfera di controllo dell'alienante induce a ritenere che l'opera debba ritenersi esistente solo al momento del suo completamento (Cass. 18.5.2001 n. 6851; Cass. n. 8118/1991; Cass. n. 3854/1989).

7.4. I criteri di distinzione proposti sono sostanzialmente due. Un primo criterio di distinzione, che può definirsi obbiettivo, propone di distinguere l'appalto dalla compravendita di cosa futura in base alla prevalenza quantitativa dell'elemento lavoro sull'elemento materia (il principio è applicato soprattutto in materia tributaria, essendo il criterio seguito dal D.P.R. n. 633 del 1972, Cass. sez. 5^, n. 9320/2006).

Si è validamente obbiettato, allorchè tale criterio è stato trasferito fuori dall'area tributaria, che non è la prevalenza quantitativa del lavoro sulla materia che ha valore decisivo, ma il modo come il lavoro è considerato dalle parti.

Il secondo criterio di distinzione tra i due contratti è quello subiettivo, alla stregua del quale dovrà vedersi in che modo le parti hanno considerato l'opera, se cioè in sè stessa o in quanto prodotto necessario di un'attività e quindi se la volontà delle parti aveva ad oggetto un dare o un facere.

Il criterio subiettivo è quello più seguito dalla giurisprudenza (Cass. 20.10.1997 n. 10256; Cass. 19.11.2002, n. 16319; Cass. 2.8.2002, n. 11602).

Per volontà delle parti deve intendersi non l'intenzione soggettiva, cioè l'opinione che esse abbiano avuto della natura del rapporto, ma l'intento empirico tipico in cui si inquadra la volontà che le muove.

E' stato già rilevato che il privato non è padrone delle conseguenze giuridiche dei negozi che compie, le quali si producono vi legis e non vi voluntatis.

La cosiddetta libertà contrattuale dei privati comincia e termina con la creazione dell'elemento di fatto del negozio e cioè con la manifestazione di un determinato intento empirico.

L'effetto giuridico è indipendente dalla rappresentazione che se ne faccia l'agente, il quale nessuna diretta influenza potrà esercitare su di esso. Quando perciò si propone di far richiamo alla volontà delle parti per qualificare il negozio, per volontà delle parti si deve intendere il dato dell'intento empirico che le parti hanno dimostrato di voler conseguire: se tale intento empirico coincide con quello della vendita, nel senso che il conseguimento della cosa costituisce la vera ed unica finalità del negozio ed il lavoro sia solo il mezzo per produrla, si ha vendita di cosa futura; se coincide con quello proprio dell'appalto, nel senso che l'attività realizzatrice della cosa sia la vera finalità del negozio, si ha appalto.

7.5. In giurisprudenza è stato più volte deciso che il contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di un'area edificabile in cambio di un fabbricato o di alcune sue parti da costruire sulla stessa superficie a cura e con i mezzi del cessionario, può integrare sia un contratto di permuta di un bene esistente con un bene futuro, sia un contratto misto, costituito con gli elementi della vendita e dell'appalto.

Si configura il primo contratto se il sinallagma negoziale sia consistito nel trasferimento reciproco della proprietà attuale con la cosa futura (ipotesi la quale si verifica anche se si sia previsto il pagamento di un conguaglio in denaro, non incidendo tale clausola sulla causa tipica del negozio di permuta) e l'obbligo di erigere l'edificio sia restato su un piano accessorio e strumentale, mentre si ravvisa l'altro contratto, qualora la costruzione del fabbricato sia stata al centro della volontà delle parti e l'alienazione dell'area abbia costituito soltanto il mezzo per conseguire l'obiettivo primario (Cass. 09/11/2005, n. 21773; Cass. 12/04/2001, n. 5494; Cass. 24/01/1992, n. 811; Cass. n. 13 del 1990, Cass. n. 5147 del 1987).

7.6. Ritengono queste S.U. di dover aderire a tale orientamento consolidato, anche in tema di differenza tra vendita di cosa futura ed appalto.

Pertanto il contratto avente ad oggetto la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell'obbligo del cedente - che sia proprietario anche del terreno su cui l'erigendo fabbricato insisterà - di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l'effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (il suolo, con conseguente effetto traslativo immediato dello stesso) e dell'appalto: e ciò a seconda che nel sinallagma contrattuale, assuma un rilievo centrale il conseguimento della proprietà dell'immobile completato ovvero tale ruolo centrale sia costituito dal trasferimento della proprietà attuale (del suolo) e dall'attività realizzatrice dell'opera da parte del cedente.

Si avrà quindi vendita di cosa futura quando l'intento delle parti abbia ad oggetto il trasferimento della cosa futura e consideri l'attività costruttiva nella mera funzione strumentale e per contro si avrà vendita con effetti reali del suolo ed appalto della costruzione, quando l'attività costruttiva, che il cedente assume a proprio rischio con la propria organizzazione, viene considerata come oggetto della prestazione di fare.

In quest'ultima ipotesi si verserà in ipotesi di contratto misto (di vendita e di appalto),la cui disciplina giuridica va individuata, in base alla teoria. dell'assorbimento, che privilegia la disciplina dell'elemento in concreto prevalente, in quella risultante dalle norme del contratto atipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (cosiddetta teoria dell'assorbimento o della prevalenza), senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l'ampiezza del vincolo contrattuale, elementi ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente (Cass. 24/07/2000, n. 9662; Cass. 08/02/2006, n. 2642).

7.7. Viene poi costantemente affermato che l'indagine sul reale contenuto delle volontà espresse nella convenzione negoziale "de qua", risolvendosi in un apprezzamento di fatto, è riservata al giudice del merito ed è conseguentemente incensurabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione.

Sennonchè nella fattispecie il ricorso è proposto soprattutto sotto il profilo di violazione delle norme in tema di giurisdizione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 1.

In proposito vige, quindi, il diverso principio secondo cui questa Corte, istituzionalmente giudice di legittimità, per quanto riguarda le questioni di giurisdizione è anche giudice del fatto e, come tale, ha il potere di apprezzare direttamente i "fatti", anche non processuali,, e di trarre conseguenze autonome e indipendenti, non solo dalle deduzioni delle parti, ma anche dal giudice del merito (Cass. S.U., 22/07/2002, n. 10696, Cass. S.U. 10/08/2000, n. 560;

Cass, S.U. 19 febbraio 1999, n. 79; Cass. S.U. 9 ottobre 1984, n. 5028; Cass. S.U. 19 novembre 1979, n. 6025).

I "fatti" sulla base dei quali la giurisdizione deve essere determinata sono, anzitutto, quelli allegati alla domanda (arg. ex art. 386 c.p.c.), ma è evidente che se un'attività istruttoria è stata, almeno in parte, espletata, la Corte deve tener conto delle sue risultanze e procedere alla loro valutazione.

8.1. Passando quindi ad esaminare i fatti, il punto di partenza è costituito dalla "ricerca di mercato" deliberata dalla giunta regionale con Delib. 16 ottobre 2001, n. 873, "finalizzata all'acquisizione in locazione con opzione di acquisto....... ovvero all'acquisto anche per cosa futura e/o mediante locazione finanziaria esistente, in corso di realizzazione o da realizzare ubicato nella città di (OMISSIS)....".

Contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata nella fattispecie non si trattava di "un bando di gara per la realizzazione dell'appalto del complesso immobiliare", ma semplicemente di un avviso con funzione di consentire una ricerca di mercato al fine di acquisire un complesso immobiliare per gli uffici regionali.

Sulla scorta della più attenta giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. 6^, 29 marzo 2001, n. 1881), deve essere rimarcata la differenza fra sondaggio esplorativo e gara ufficiosa istituti entrambi utilizzabili nella trattativa privata: il primo tende solo ad acquisire una conoscenza dell'assetto del mercato e dunque dell'esistenza di imprese potenziali contraenti e del tipo di condizioni contrattuali che sono disposte a praticare; il secondo, oltre ad essere strumento di conoscenza implica una valutazione comparativa delle offerte, valutazione che è insita nel concetto stesso di gara e che pone l'obbligo per l'amministrazione di rispettare le prescrizioni assunte in sede di autovincolo, in ossequio ai canoni di trasparenza, buon andamento ed imparzialità.

Ma, al di fuori del rispetto di tale autovincolo, la gara informale non snatura le linee fondamentali ed i caratteri tipici della trattativa privata, trasformandosi in una procedura meccanica di gara formale ad evidenza pubblica.

Già dal modo di "porsi sul mercato" con tale "ricerca di mercato" emerge che la regione mirava ad acquisire il godimento di un immobile (come diritto personale o come contenuto del diritto di proprietà) tramite preventiva locazione, anche finanziaria, con diritto di riscatto ovvero con acquisto di cosa futura, e non l'attività realizzatrice di un appaltatore.

8.2. Infondato è l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui con lo schema della vendita di cosa futura sarebbe incompatibile la previsione di acconti.

Incompatibile con la vendita di cosa futura non è l'acconto di per sè, quanto la previsione di acconti in corso d'opera in relazione a stati di avanzamento dei lavori, propri, invece dell'appalto.

Mentre nell'appalto l'acconto si giustifica in virtù del SAL e dunque di una parziale esecuzione dell'oggetto del contratto, nella vendita di cosa futura l'adempimento dell'alienante si configura solo con il completamento del bene, per cui antecedentemente non è previsto un pagamento per un "parziale" adempimento.

Sennonchè nello schema di contratto allegato alla Delib. n. 119 del 2002 il pagamento di 14 milioni di Euro è previsto non come "acconto d'opera", ma come anticipazione di pagamento di parte del prezzo finale.

8.3. Egualmente infondato è l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui la previsione di un termine di ultimazione dei lavori sarebbe tipica dell'appalto e normalmente estranea all'ipotizzato contratto di vendita.

Infatti, allorchè la vendita di cosa futura preveda che la cosa venga ad esistenza attraverso il comportamento dell'alienante e che, quindi, sia pure quale elemento accessorio, sia prevista un'attività di questi, è perfettamente conciliabile con tale schema contrattuale la fissazione di un termine entro cui detta cosa futura debba venire ad esistenza.

8.4. Neppure è elemento, che milita necessariamente per la qualificazione dello schema contrattuale come appalto, l'obbligo assunto dall'attrice di realizzare gli impianti a perfetta regola d'arte, in quanto anche nella vendita di cosa futura devono essere preventivamente individuate le caratteristiche tecniche dell'opera da realizzare, analogamente quanto alla costituzione di una commissione di esperti per verificare la "regolare esecuzione del contratto", in quanto l'intervento di detta commissione, non è stato previsto come controllo in corso d'opera, quale quello che effettua il direttore dei lavori della stazione appaltante o l'ingegnere capo, ma dopo la realizzazione e consegna dell'opera.

Non potendo tale commissione incidere nel momento del facere, il ruolo ad essa spettante è solo quello di verifica dell'opera compiuta, che è perfettamente conciliabile con la vendita di cosa futura.

Inoltre nella fattispecie si tratta di commissione paritetica, composta da rappresentati di entrambi le parti, mentre tali non sono i controlli svolti in corso di contratto di appalto.

Ritenuti, quindi, insussistenti gli elementi posti dalla sentenza impugnata a base della qualificazione del contratto in questione quale contratto di appalto, vanno ora esaminati, quali sono gli elementi che fanno qualificare detto contratto come contratto di vendita di cosa futura.

8.5. E' vero che il nomen iuris dato dalle parti allo schema contrattuale in questione di per sè non è rilevante e neppure lo è l'art. 4 nella parte in cui dichiara che "le parti convengono espressamente che il presente contratto si configura come acquisto di cosa futura, anche agli effetti dell'art. 1472 c.c.", per le ragioni già dette, secondo cui ciò che conta non è l'intenzione soggettiva delle parti sulle conseguenze giuridiche delle volontà espresse, ma l'intento empirico di tale manifestazioni di volontà.

In questo senso sono quindi rilevanti l'art. 2, in cui la Hermes dichiara di trasferire la piena proprietà del complesso immobiliare da realizzare in (OMISSIS) e la Regione Calabria dichiara di acquistare tale bene; l'art. 3, in cui le parti dichiarano che oggetto del trasferimento sono l'appezzamento del terreno, i manufatti e le opere da realizzare; l'art. 4, nella parte in cui le parti specificano che la proprietà dei beni sarà trasferita alla regione solo nel momento in cui il complesso viene ad esistenza.

8.6. Quanto all'interpretazione delle clausole contrattuali va, anzitutto, rilevato che l'art. 1362 c.c., allorchè nel comma 1 prescrive all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l'elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, rilevi con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi è divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile; soltanto quando le espressioni letterali del contratto non sono chiare, precise ed univoche, è consentito al giudice ricorrere agli altri elementi interpretativi indicati dagli artt. 1362 e ss. c.c., che hanno carattere sussidiario (Cass. 22/02/2007, n. 4176; Cass. 1.4.1993, n. 3936).

Pertanto, nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento dell'operazione interpretativa, è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino un'intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la propria soggettiva opinione all'effettiva volontà dei contraenti (Cass. 22/12/2005, n. 28479; 03/12/2004, n. 22781; Cass. 22.4.1995, n. 4563).

8.7. Nella fattispecie, come risulta sia dall'avviso di ricerca di mercato che dallo schema del contratto, l'interesse dell'amministrazione non era tanto quello di ottenere il suolo per una successiva trasformazione del medesimo, quanto l'acquisizione di un edificio già realizzato rispetto al quale sia l'acquisto del suolo che il lavoro del costruttore appaiono come elementi indispensabili, ma comunque accessori, rispetto all'oggetto effettivo del contratto.

Peraltro, come si è visto, a fronte della ritenuta natura del contratto come compravendita di cosa futura, non avrebbe mai potuto sussistere solo un contratto di appalto, in quanto il terreno era della stessa Hermes (ipotetica appaltatrice) ed il contratto in questione sarebbe stato un contratto di appalto di opera pubblica su terreno di proprietà dello stesso appaltatore, ma un contratto misto di vendita con effetti reali di bene esistente (il terreno) e di contestuale appalto per la realizzazione dell'edificio.

Sennonchè, come detto, dall'art. 2 del contratto emerge che l'intento delle parti non era quello di trasferire la sola proprietà del terreno ma anche quella dell'intero complesso da realizzare e che lo stesso trasferimento della proprietà del terreno sarebbe avvenuto in una alla proprietà del complesso immobiliare, allorchè esso sarebbe stato ultimato.

8.8. In merito al passaggio di proprietà dell'opera nell'appalto di costruzione di immobili, la dottrina, che se ne è occupata, ritiene condivisibilmente che, se il suolo è di proprietà del committente, l'opera nasce di sua proprietà per accessione; se invece il terreno è dell'appaltatore (o perchè già suo o perchè l'abbia acquistato ai fini dell'esecuzione del contratto di appalto, rivestendo in questo acquisto la qualità di mandatario del soggetto committente l'appalto) e non sia stato trasferito al committente, l'appaltatore che ha fornito anche i materiali ed il lavoro, è acquirente originario della proprietà dell'opera, che passa nella proprietà del committente solo con l'accettazione dell'opera, che deve essere data per iscritto, trattandosi di immobili.

Nella fattispecie - invece - il trasferimento della proprietà era previsto nel contratto per effetto della sola venuta ad esistenza ed ultimazione del complesso e non per effetto dell'accettazione, il che è conforme alla disciplina della vendita di cosa futura.

9.1. Ne consegue che, non versandosi in ipotesi di procedura di affidamento di appalto di lavori, ma di trattative relative ad un contratto di compravendita di cosa futura, per la proposta azione di responsabilità precontrattuale nei confronti della regione convenuta, non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (per le controversie relative alle procedure di affidamento di lavori da parte delle P.A., ai sensi della L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 6), ma la giurisdizione del giudice ordinario.

Infatti, esclusa l'applicabilità di tale ultima norma, la giurisdizione va affermata sulla base dei criteri di riparto ancorati alla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, e perciò in funzione della natura giuridica delle situazioni soggettive dedotte in giudizio.

Tale natura attiene ad una pretesa il cui soddisfacimento non postula la demolizione di alcun atto amministrativo, giacchè allega un illecito extracontrattuale a carico della P.A. e non contesta la procedura relativa alla individuazione del contraente (Cass. S.U. n. 9645 del 2001, e 10160 del 2003; Cass. S.U. 03/07/2006, n.15199;

Cass. S.U. 6/02/2006, n. 2450).

9.2. Va pertanto accolto il ricorso; va cassata l'impugnata sentenza e dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, con conseguente rinvio al tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, quale giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 383 c.p.c., comma 3, e art. 353 c.p.c., comma 1, anche per le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso.

Cassa l'impugnata sentenza; dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rinvia la causa al Tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 22 aprile 2008.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2008

 


 
 

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