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Cassazione Lavoro: no alla responsabilità automatica del committente per infortunio lavoratore

Corte di Cassazione - Sezione Quarta Penale, Sentenza 30 gennaio 2012, n. 3563
 

Cassazione Civile: decreto ingiuntivo e fallimento della s.n.c., effetti nei confronti dei soci

Corte di Cassazione - Terza Sezione Civile, Sentenza 24 marzo 2011, n.6734
 

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DANNO NON PATRIMONIALE: PRESUPPOSTI E CRITERI DI RISARCIBILITA'

Cass. civ. Sez. Unite, 19-08-2009, n. 18356

 

L'art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c.: e cioè la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso. Il danno non patrimoniale e' risarcibile nei soli casi "previsti dalla legge", e cioè, (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; (b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato; (c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno quando la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, come nel caso di molestie causate da ripetute infondate richieste di pagamento del canone televisivo.

 

Cass. civ. Sez. Unite, 19-08-2009, n. 18356  

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 9 novembre 2004 C.C. conveniva in giudizio dinanzi al giudice di pace di Benevento la RAI Radiotelevisione Italiana spa deducendo che in data 21.10.2004 le era stato inviato da tale società sollecito di pagamento del canone televisivo; che tale sollecito era stato preceduto da altri due inviati il 29 aprile e il 3 maggio dello stesso anno ai quali era stato risposto compilando questionario - cartolina specificandosi che il suo nucleo familiare già provvedeva a pagare annualmente il canone il cui abbonamento era intestato ad uno dei componenti effettivi e conviventi della famiglia;che la ricezione continua di detti solleciti, nonostante le risposte inviate, le creava danni da disagio, discredito, ansia e stress.

Chiedeva pertanto, previa declaratoria di infondatezza della richiesta inoltratale dalla convenuta, la condanna della medesima a titolo di risarcimento danni al pagamento della somma ritenuta di giustizia, anche facendo ricorso all'art. 1226 c.c., oltre interessi e rivalutazione, il tutto da contenersi entro l'importo di Euro 1.000,00 e comunque entro i limiti di competenza per valore del giudice adito.

Instauratosi il contraddittorio la RAI, deducendo la natura di imposta del canone di abbonamento alla televisione di Stato, eccepiva preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice adito in favore del giudice tributario, l'incompetenza per materia e per territorio in favore della competenza esclusiva della Commissione Tributaria di Torino, il proprio difetto di legittimazione passiva per essere gli importi del canone destinati all'Amministrazione finanziaria dello Stato e contestava nel merito la fondatezza della pretesa avversaria perchè non provata e per l'insussistenza comunque dei presupposti risarcitori di cui all'art. 2059 c.c..

Con sentenza del 22 settembre 2005 il giudice di pace, dichiarata la propria competenza, dichiarava la società convenuta responsabile del danno esistenziale strettamente connesso alle ripetute e arbitrarie diffide di pagamento indirizzate all'attrice e la condannava al pagamento in favore della predetta della somma di Euro 199,20 a titolo di risarcimento danni, oltre rivalutazione ed interessi dalla domanda al soddisfo e alle spese processuali distraende in favore del procuratore antistatario.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la RAI Radiotelevisione italiana spa sulla base di cinque motivi, il primo dei quali attinente alla giurisdizione.

Non ha spiegato attività difensiva in questa sede l'intimata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si denunzia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 5, difetto di giurisdizione del giudice ordinario nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Osserva la ricorrente che avendo la C. proposto la domanda risarcitoria, previa declaratoria di infondatezza della richiesta inoltrata dalla convenuta, quella domanda in tanto poteva essere scrutinata dal giudice di pace in quanto fosse stata previamente accertata dal giudice "competente" vale a dire dal giudice tributario (essendo il canone di abbonamento un'imposta) l'insussistenza dell'obbligo di pagamento del canone medesimo da parte della nominata C. e la conseguente illegittimità delle relative richieste di pagamento.

La doglianza è infondata giacchè correttamente il giudice "a quo" ha ritenuto la propria giurisdizione avendo la C. proposto un'azione risarcitoria fondata sull'illegittimità dei solleciti di pagamento del canone televisivo dopo che vi erano state già comunicazioni di non essere tenuta al detto pagamento.

Del resto in fattispecie del tutto analoga la Sezione Terza di questa Suprema Corte, con sentenza n. 12885 del 4 giugno 2009, ha ritenuto la propria giurisdizione, implicitamente rigettando l'eccezione della RAI di difetto di giurisdizione del giudice ordinario.

Con il secondo mezzo si deduce, in riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 2, l'incompetenza per materia, e territorio del giudice adito, nonchè omessa, contraddittoria e/o insufficiente motivazione sul punto.

Rileva parte ricorrente la immotivata reiezione da parte del giudice "a quo" delle proposte eccezioni di incompetenza per materia e per territorio.

Assume che vertendosi in tema di imposta la competenza apparteneva alla Commissione Tributaria di Torino, luogo dove era sorta e doveva eseguirsi l'obbligazione di pagamento del canone da parte delle C..

Il motivo è infondato stante la testè ritenuta giurisdizione del giudice ordinario "in subiecta materia".

Con il terzo motivo si denunzia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omessa motivazione in ordine all'eccezione di difetto di legittimazione passiva.

Rileva la ricorrente che il soggetto legittimato ad incassare le somme relative al canone televisivo è l'Amministrazione Finanziaria dello Stato e precisamente l'Agenzia delle Entrate-Ufficio di Torino.

Non aveva alcun rilievo, ai fini della legittimazione passiva sull'istanza risarcitoria, la circostanza che l'invito al pagamento provenisse da essa RAI, giacchè tali inviti venivano inoltrati ai soggetti inseriti nell'elenco stilato e tenuto dall'Agenzia delle Entrate, con la quale essa ricorrente collaborava per la riscossione del tributo.

Con il quarto mezzo si deduce, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 101, 102 e 113 c.p.c., art. 24 Cost., e art. 111 Cost., comma 6, e dell'art. 2043 cc da cui desumere il principio dell'ordinamento applicabile anche in sede di giudizio di equità, nonchè omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Osserva parte ricorrente che essendo l'A.F. sostanzialmente destinataria degli effetti della sentenza del giudice di pace essa doveva assumere nel giudizio il ruolo di necessario contraddittore.

In realtà l'A.F. era il vero ed effettivo soggetto titolare del rapporto d'imposta mentre la RAI, mera "longa manus" era priva di legittimazione sostanziale.

L'A.F. doveva considerarsi pertanto parte necessaria del giudizio in cui si verteva sulla legittimità o meno dell'invio di comunicazioni che facevano parte del procedimento tributario di accertamento della debenza di un'imposta che andava a beneficio diretto del bilancio dello Stato. Mentre essa RAI, recapitando gli avvisi in parola, dai quali peraltro nessun obbligo o sanzione scaturiva a carico dei destinatari, si limitava a svolgere un'attività doverosa, di carattere materiale e meramente strumentale rispetto alle funzioni di accertamento e riscossione del canone di abbonamento televisivo, di esclusiva competenza dell'A.F..

I due motivi, da esaminarsi congiuntamente stante la loro stretta connessione, sono inammissibili. Essi, invero, pur formalmente deducendo violazione di norme processuali e di principi informatori del diritto, esulano dalle censure consentite in sede di legittimità avverso le sentenze emesse secondo equità dal giudice di pace.

Merita puntualizzare che non è in discussione la "legitimatio ad causam", che è istituto processuale ricollegabile al principio di cui all'art. 81 c.p.c., e riferibile al soggetto che ha il potere di esercitare l'azione in giudizio ovvero nei cui confronti tale azione può essere esercitata, bensì si eccepisce l'effettiva titolarità passiva della pretesa risarcitoria, sul presupposto dell'estraneità al fatto dedotto in giudizio. Trattasi di una questione che comporta una disamina e una decisione attinente al merito della controversia e non alle regole procedurali, con la conseguenza che, in relazione ad essa, non è esperibile il ricorso per cassazione, ammesso - avverso le sentenze pronunciate, come quella in esame, dal giudice di pace secondo equità - oltre che per violazione delle regole procedurali, solo per violazione di norme costituzionali e comunitarie di rango superiore alle norme ordinarie o dei principi informatori della materia e per carenza assoluta, mera apparenza o radicale ed insanabile contraddittorietà della motivazione e non anche per violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, (vedi sul punto la citata sentenza n. 12885/2009).

Con il quinto motivo si denunzia, infine, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, violazione del principio del "neminem laedere" desumibile dall'art. 2043 c.c., come principio dell'ordinamento applicabile anche in sede di giudizio deciso secondo equità.

Osserva la ricorrente che essendo assorbenti i rilievi svolti attinenti a questioni meramente processuali doveva considerarsi superflua una dettagliata analisi della gravata sentenza nella parte relativa al merito della controversia, dovendo questa Suprema Corte cassare senza rinvio. Rileva, comunque, nel merito che il giudice "a quo" avrebbe potuto qualificare in termini di illiceità anche ex art. 2043 c.c., o sulla base di un più generale principio equitativo al quale tale norma si riporta, la comunicazione di essa RAI soltanto qualora avesse motivatamente dimostrato che tale comunicazione avesse caratteristiche tali da integrare un"aggressione alla sfera psico-fisica di una persona normale".

Sotto tale profilo era intuitivo, ad avviso della RAI, che una mera comunicazione (dalla quale non conseguiva alcun effetto giuridicamente rilevante) non aveva nè un carattere obbligante nè tanto meno coercitivo e quindi per definizione non costituiva molestia.

Il motivo di ricorso riguarda il punto della decisione che ha riconosciuto il risarcimento a titolo di danno esistenziale identificato nella costrizione indotta ripetutamente ad occuparsi delle problematiche attinenti all'obbligatorietà dell'abbonamento alla televisione e nel turbamento della quiete e tranquillità psichica della C., destinataria di immotivate diffide, con prospettazione reiterata di accertamenti e sanzioni, produttiva di un clima di intimidazione arbitraria, causa di disagio, ansia e stress. Il motivo è fondato nei termini che seguono. Come è noto queste Sezioni Unite, con quattro contestuali sentenze di contenuto identico (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 in data 11 novembre 2008)hanno di recente proceduto ad una rilettura in chiave costituzionale del disposto dell'art. 2059 cc, ritenuto principio informatore del diritto, come tale vincolante anche nel giudizio di equità, da leggersi - non già come disciplina di un'autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c. - bensì come norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie) sul presupposto dell'esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c., e cioè: la condotta illecita, 'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso.

In tale prospettiva la peculiarità del danno non patrimoniale viene individuata nella sua tipicità, avuto riguardo alla natura dell'art. 2059 c.c., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e quindi ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili presieduti dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione in quest'ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l'interesse leso e non il pregiudizio conseguentemente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario).

Ciò precisato, si osserva che, nella specie, non sussiste un'ingiustizia costituzionalmente qualificata, tantomeno si verte in un'ipotesi di danno patrimoniale, risultando, piuttosto, la ritenuta lesione della "quiete e tranquillità psichica" insuscettibile di essere monetizzata siccome inquadrabile in quegli sconvolgimenti della quotidianità "consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione" (oggetto delle c.d. liti bagatellari) ritenuti non meritevoli di tutela risarcitoria (vedi la citata sentenza n. 12885/2009, nonchè Cass. Sez. 3^ n. 8703/2009).

In conclusione, rigettati i primo quattro motivi, il quinto va accolto e, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 2, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, posto che, non essendo necessari accertamenti di fatto, va pronunciato nel merito e - in applicazione dei principi affermati da queste Sezioni Unite sopra richiamati - la domanda di risarcimento della C. va rigettata.

Le spese dell'intero processo vanno integralmente compensate tra le parti avuto riguardo al rigetto dei primi quattro motivi nonchè alla relativa novità e alla natura delle questioni trattate con il quinto.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il quinto motivo del ricorso, rigetta gli altri;cassa, in relazione al motivo accolto l'impugnata sentenza e decidendo nel merito rigetta la domanda di risarcimento danni proposta da C.C..

Compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 26 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2009                              


Cassazione Civile: Tabelle Tribunale di Milano criterio di riferimento per risarcimento danni
18-06-2011

da www.filodiritto.it 

 

Per la liquidazione del danno alla persona, in assenza di criteri stabiliti dalla legge, l'applicazione della regola equitativa di cui all'articolo 1226 Codice Civile, deve essere tale da garantire uniformità di giudizio, dovendosi ritenere abnorme che danni identici siano liquidati in misura diversa a seconda dell'ufficio giudiziario a cui è stata devoluta la controversia. La Corte di Cassazione ha pertanto giudicato necessario indicare ai giudici di merito, quali criteri uniformi per la liquidazione del danno alla persona, le "Tabelle" elaborate dal Tribunale di Milano, già diffuse in tutto il territorio nazionale.

Vale la pena di ripercorrere i passaggi salienti di questa epocale pronuncia.

- "Ora, l'art. 139, comma 2, Codice delle assicurazioni, stabilendo che "per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medicolegale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato ...", ha avuto riguardo ad una concezione del danno biologico anteriore alle citate sentenze del 2008, nel quale il limite della personalizzazione -costituente la modalità attraverso la quale, secondo le Sezioni unite, è possibile riconoscere le varie "voci del danno biologico nel suo aspetto dinamico" -è fissato dalla legge: e lo è in misura non superiore ad un quinto. Quante volte, dunque, la lesione derivi dalla circolazione di veicoli a motore e di natanti, il danno non patrimoniale da micro permanente non potrà che essere liquidato, per tutti i pregiudizi areddituali che derivino dalla lesione del diritto alla salute, entro i limiti stabiliti dalla legge mediante il rinvio al decreto annualmente emanato dal Ministro delle attività produttive (ex art. 139, comma 5), salvo l'aumento da parte del giudice, "in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato" (art. 139, comma 3). Solo entro tali limiti il collegio ritiene di poter condividere il principio enunciato da Cass. 17 settembre 2010, n. 19816, che ha accolto il ricorso in un caso nel quale il risarcimento del danno "morale" era stato negato sul presupposto che la tabella normativa non ne prevede la liquidazione".

- "In un sistema caratterizzato da divergenti applicazioni del concetto di equità, la Corte di cassazione è dunque chiamata ad effettuare un'opzione tra i tanti criteri concretamente adottati dalla giurisprudenza. Criteri che si pongono tutti su un piano di pari dignità concettuale e che costituiscono il frutto degli spontanei, lodevoli e spesso assai faticosi sforzi dei giudici di merito volti al perseguimento, in ambito necessariamente locale, degli stessi scopi che si intende ora realizzare sul piano nazionale.

Il criterio della media aritmetica, al quale vien fatto immediatamente di pensare e che in teoria consentirebbe di indicare come equo un valore rispetto al quale le liquidazioni previgenti presentano il minore scostamento in termini assoluti, trova molteplici e determinanti controindicazioni.

La prima è che la media sarebbe arbitrariamente effettuata tra valori con pesi ponderali assai diversi. Ignoto sostanzialmente essendo il numero delle precedenti decisioni alle quali ciascun ufficio giudiziario ha fatto riferimento per elaborare le proprie tabelle, sta il fatto che ogni ufficio ha un suo proprio organico di magistrati, che il numero dei casi decisi è profondamente diverso tra i vari tribunali, che gli ambiti territoriali dei vari circondari e distretti presentano marcatissime differenze, così come il numero degli abitanti e quello degli avvocati in ognuno di essi operanti. Sarebbe, così, privo di qualsiasi senso logico fare una media, considerando paritetica l'incidenza dei valori indicati in ciascuna tabella, fra quelle elaborate da tribunali cui siano addetti poche decine di giudici e quelle adottate presso uffici giudiziari dove operino diverse centinaia di magistrati. Difettano, del pari, indici di sicura attendibilità al fine dell'attribuzione di pesi ponderali diversificati.

La seconda controindicazione è insita nel rilievo che una media è possibile solo tra valori aritmetici e non anche tra criteri di liquidazione, spesso non omogenei.

La terza controindicazione è costituita dalla inopportunità che la Corte di legittimità contrapponga una propria scelta a quella già effettuata dai giudici di merito di ben sessanta tribunali, anche di grandi dimensioni (come, ad esempio, Napoli) che, al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali, hanno posto a base del calcolo medio i valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano, dei quali è dunque già nei fatti riconosciuta una sorta di vocazione nazionale.

Essi costituiranno d'ora innanzi, per la giurisprudenza di questa Corte, il valore da ritenersi "equo", e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fatti specie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entità.

Consta, d'altronde, che anche delle menzionate diversità l'Osservatorio sulla giustizia civile del Tribunale di Milano ha tenuto conto allorché, a seguito di un dibattito al quale hanno partecipato giudici ed avvocati (taluni anche fiduciari di importanti compagnie assicurative), il 25 giugno 2009 ha adottato la nuova tabella, significativamente denominata - in ossequio ai principi enunciati dalle sezioni unite del 2008, dunque considerati, in una alle conseguenze macroeconomiche delle decisioni assunte, in termini di costi e benefici sia sociali che assicurativi - non più "Tabella per la liquidazione del danno biologico", bensì "Tabella per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico-fisica", di recente aggiornata (il 23.3.2011) in riferimento alle variazioni del costo della vita accertate dall'I.S.T.A.T. nel periodo 1.1.2009-1.1.2011.

Sono stati contestualmente approvati i nuovi "Criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psico-fisica e dalla perdita/grave lesione del rapporto parentale", ai quali pure occorrerà fare riferimento, anche per quanto attiene alla personalizzazione del risarcimento.

Va qui chiarito che l'avere assunto, con operazione di natura sostanzialmente ricognitiva, la tabella milanese a parametro in linea generale attestante la conformità della valutazione equitativa del danno in parola alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056, primo comma, cod. civ. non comporterà la ricorribilità in cassazione, per violazione di legge, delle sentenze d'appello che abbiano liquidato il danno in base a diverse tabelle per il solo fatto che non sia stata applicata la tabella di Milano e che la liquidazione sarebbe stata di maggiore entità se fosse stata effettuata sulla base dei valori da quella indicati.

Perché il ricorso non sia dichiarato inammissibile per la novità della questione posta non sarà infatti sufficiente che in appello sia stata prospettata l'inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma occorrerà che il ricorrente si sia specificamente doluto in secondo grado, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano; e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti. In tanto, dunque, la violazione della regola iuris potrà essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. in quanto la questione sia stata specificamente posta nel giudizio di merito (come accaduto nel caso di specie)".

 


 
 

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