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DEMANSIONAMENTO E RISARCIMENTO DEL DANNO

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO - Sentenza 14 aprile 2011, n. 8527
 

Cassazione Lavoro: no alla responsabilità automatica del committente per infortunio lavoratore

Corte di Cassazione - Sezione Quarta Penale, Sentenza 30 gennaio 2012, n. 3563
 

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27-02-2011

Cassazione Civile: non c'è addebito per moglie che lascia per litigi con suocera

Corte di Cassazione - Sezione Prima Civile, Sentenza 24 febbraio 2011, 4540

 

da www.filodiritto.it 

La Cassazione ha cassato la sentenza della Corte d'appello che non aveva considerato giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare la convivenza della suocera con la quale la moglie aveva frequenti litigi.

La Cassazione ha applicato nel caso di specie il proprio orientamento: "L'enunciato di questa Corte espresso nella sentenza n.1202/2006, citata dalla ricorrente, afferma che l'allontanamento dalla residenza familiare che, ove attuato unilateralmente dal coniuge, e cioè senza il consenso dell'altro coniuge, e confermato dal rifiuto di tornarvi, di per sè costituisce violazione di un obbligo matrimoniale e conseguentemente causa di addebitamento della separazione poichè porta all'impossibilità della coabitazione, non concreta tale violazione allorché risulti legittimato da una "giusta causa", tale dovendosi intendere la presenza di situazioni di fatto, ma anche di avvenimenti o comportamenti altrui, di per sè incompatibili con la protrazione di quella convivenza, ossia tali da non rendere esigibile la pretesa di coabitare (cfr. Cass., Sez. l, 28 agosto 1996, n. 7920; Cass., Sez. l, 29 ottobre 1997, n. 10648; Sez. l, 11 agosto 2000, n. 10682).

Tale giusta causa è ravvisabile anche nei casi di frequenti litigi domestici della moglie con la suocera convivente e nel conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra gli stessi coniugi. Se insomma, la frattura è precedente all'allontanamento dalla casa coniugale, della quale pertanto non poteva essere stato causa, l'addebitabilità della separazione al coniuge che si allontani deve essere esclusa senza necessità di verificare ulteriormente se il comportamento dell'altro coniuge costituisca violazione dei suoi doveri coniugali".

In definitiva: "La decisione della Corte d'Appello che ha ritenuto di attribuire la separazione alla moglie per aver ella abbandonato la sua residenza ingiustificatamente, non avendo il marito compiuto atti di violenza, o di tradimento o comunque di gravità tale da impedire alla predetta di attendere i tempi della separazione giudiziale, disapplica il principio riferito. Ne consuma ulteriore contrasto laddove assume la tollerabilità della litigiosità per il solo fatto che il matrimonio durava da 15 anni ed era contrassegnato dai riferiti lamentati episodi. Il motivo deve perciò essere accolto. Restano assorbite tutte le ulteriori censure".


Cassazione Civile: alle SU dimezzamento dei termini di costituzione nell'opposizione a DI
27-03-2011

da www.filodiritto.it  

 

Non trova pace la questione dei termini di costituzione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. La Sezione Terza della Cassazione ha pronunciato ordinanza interlocutoria con la quale chiede un nuovo intervento delle Sezioni Unite, non aderendo al principio di diritto da queste elaborato con Sentenza 19246/2010.

Riportiamo i passaggi più rilevanti della pronuncia:

"il Collegio rileva che il principio enunciato è estraneo al testo letterale dell'art. 645 cod. proc. civ. e ritiene che esso non trovi supporto in esigenze di carattere sistematico. In primo luogo la norma autorizza, ma non impone, la riduzione del termine di comparizione, nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo, sicché appare singolare e disarmonico che il termine di costituzione debba ritenersi sempre ed obbligatoriamente dimezzato, essendo invece facoltativo avvalersi della riduzione del termine di comparizione. La soluzione si spiegherebbe se vi fosse un principio per cui tutti i termini debbono essere dimezzati, nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo; ma così non è.

- Né sembra corretto trarre argomento dalle disposizioni dettate per il processo ordinario dagli art. 163bis, 2° comma, e 165, 1° comma, cod. proc. civ.: sia perché nel processo ordinario la riduzione del termine di comparizione deve essere appositamente richiesta dalla parte interessata, la quale così accetta consapevolmente la regolamentazione ed i limiti che ne conseguono; sia perché ivi la riduzione del termine di costituzione è espressamente disposta dalla legge (art. 165, 1° comma, cod. proc. civ.); sia perché l'eventuale tardività dell'iscrizione a ruolo non comporta l'improcedibilità della domanda, pregiudicando irrimediabilmente la posizione della parte, ma è sanabile mediante riassunzione (art. 307 cod. proc. civ.).

- In un processo in cui colui che riveste sostanzialmente la posizione di convenuto è esposto ad un provvedimento di condanna sommaria e preventiva; deve proporre le sue difese entro un termine perentorio, a pena del passaggio in giudicato della condanna; non può evitare l'esecuzione provvisoria in mancanza di prova scritta; è soggetto a pronuncia immediata di improcedibilità, nel caso di mancata o tardiva costituzione, ecc., l'introduzione in via meramente interpretativa di ulteriori restrizioni e decadenze - quali la riduzione automatica a cinque giorni del termine di costituzione, a prescindere da ogni consapevole scelta di parte - non pare compatibile con i principi per cui il giusto processo deve svolgersi "in condizioni di parità fra le parti" e deve essere "regolato dalla legge" (art. 111, 1° e 2° comma Cost.). Si aggravano infatti le asimmetrie di disciplina nell'esercizio del diritto di difesa, in danno del solo opponente ed in mancanza di espressa disposizione di legge.

-L'interpretazione qui criticata non appare giustificata neppure da esigenze di garanzia della "ragionevole durata del processo", o del diritto di difesa dell'opposto. Sulla durata del processo non incidono i termini di costituzione, bensì i termini di comparizione. Il diritto di difesa dell'opposto non risulta meno tutelato di quello spettante all'opponente, ove si consideri che il termine di quaranta giorni concesso a quest'ultimo per predisporre le sue difese e notificare l'atto di opposizione potrebbe essere ridotto fino a dieci giorni (art. 641, 20 comma, cod. proc. civ.). Questo Collegio ritiene, pertanto, che la riduzione alla metà dei termini di costituzione dell'opposto debba ritenersi operante (tutt'al più) nei soli casi in cui l'opponente effettivamente si avvalga del diritto di ridurre alla metà i termini di comparizione.  In subordine e in ogni caso, anche ammesso che si voglia confermare l'interpretazione qui criticata, il principio enunciato dalla Corte di cassazione a sezioni unite con la citata sentenza n. 19246 del 2010, non dovrebbe poter essere applicato ai processi svoltisi in data anteriore, allorché era consolidata una diversa interpretazione. Va tenuto presente che, mentre una legge che innovi al diritto preesistente contiene normalmente anche le norme transitorie e la disciplina dei rapporti in corso - e, se non le contiene, è comunque soggetta ai principi generali in materia (art. 10 e 11 delle preleggi, art. 25 Cost., ecc.) - una nuova regola giurisprudenziale nasce del tutto scollegata dai problemi di diritto intertemporale, pur venendo di fatto a rivestire, nella formazione del diritto vivente e concretamente applicato, una rilevanza spesso non inferiore a quella della legge. La mancata, espressa previsione e disciplina del problema si ricollega al principio generale per cui le regole di origine giurisprudenziale, non avendo forza di legge, non possono formalmente vincolare le parti o gli interpreti, quindi possono essere disattese in qualunque momento, precedente o successivo alla loro formulazione. Ma trattasi di un principio che esprime un'esigenza di garanzia e che non può essere usato contro se stesso, sì da condurre a risultati antitetici a quelli per i quali è stato formulato".

 


 
 

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