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Servitù di passaggio ed usucapione

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE - Sentenza 10 marzo 2011, n. 5733
 

DEMANSIONAMENTO E RISARCIMENTO DEL DANNO

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO - Sentenza 14 aprile 2011, n. 8527
 

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RESPONSABILITA' PROFESSIONALE MEDICA. RIPARTIZIONE ONERE PROBATORIO

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 11-01-2008, n. 577

 

In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (nella specie la .S.C. ha cassato la sentenza di merito che - in relazione ad una domanda risarcitoria avanzata da un paziente nei confronti di una casa di cura privata per aver contratto l'epatite C asseritamente a causa di trasfusioni con sangue infetto praticate a seguito di un intervento chirurgico - aveva posto a carico del paziente l'onere di provare che al momento del ricovero egli non fosse già affetto da epatite). (Cassa con rinvio, App. Roma, 9 Aprile 2002)

 

 

 

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 11-01-2008, n. 577

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 7.11.1995, G.G., assumendo di aver contratto l'epatite "C" con le trasfusioni praticategli in occasione di un intervento chirurgico su di lui eseguito dal dr. T. il (OMISSIS) presso la casa di cura (OMISSIS), appartenente alla s.p.a. Assa, convenne davanti al tribunale di Roma, quest'ultima, G., A. e T.F., quali eredi di Tu.Gi., per il risarcimento dei danni.

Si costituivano i convenuti, nonché la chiamata in causa S.P.A. Riunione Adriatica di Sicurtà, quale assicuratrice della società Assa.

Il tribunale di Roma rigettava la domanda.

Proponeva appello l'attore.

La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 9.4.2002, rigettava l'appello.

Riteneva la corte di merito che l'attore non aveva provato il nesso di causalità tra l'emotrasfusione e l'epatite C, poiché non era stato provato con la documentazione, tempestivamente prodotta, che alla data del ricovero non fosse portatore già della patologia lamentata, come avevano concluso i c.t.u., mentre non poteva tenersi conto della documentazione relativa ad esami ematici effettuati, prodotta dall'attore in primo grado dopo i termini di cui all'art. 184 c.p.c., e riprodotta in appello. Riteneva poi il giudice di appello che nessun valore probatorio potesse attribuirsi al verbale della Commissione medico-ospedaliera, che, ai sensi della L. n. 210 del 1992, art. 4, aveva accertato tale nesso causale tra epatite e trasfusione in questione.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'attore.

Resistono con controricorso gli intimati. La s.p.a. Assa e la s.p.a. Ras hanno presentato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente; alla ripartizione dell'onere probatorio in materia di responsabilità medica.

Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., la violazione degli artt. 113 e 115 c.p.c., ed il vizio di motivazione, a norma degl'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Assume il ricorrente che erratamente la corte di appello non ha preso in esame la documentazione prodotta in appello e relativa agli accertamenti sanatari effettuati nel (OMISSIS), da cui risultava che non era affetto da epatite.

Lamenta poi il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse onere di esso attore provare il nesso causale tra emotrasfusione e l'epatite C di cui soffriva, nonché provare che esso attore non fosse già portatore di tale malattia al momento del ricovero.

2. Il motivo va accolto nei termini che seguono.

È infondata la censura secondo cui erratamente il giudice di appello non ha tenuto conto della documentazione sanitaria esibita in grado di appello e relativa al suo stato di salute precedentemente al ricovero, trattandosi di prove precostituite.

Come queste S.U. hanno già statuito, nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l'art. 345 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova "nuovi" - la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza - e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per cause a esse non imputabili, ovvero nel convincimento del Giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell'impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l'ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti (Cass. Sez. Unite, 20/04/2005, n. 8203).

3.1. Sono invece fondate le altre censure sollevate nel motivo di ricorso.

Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

3.2. Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell'applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d'opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto per l'affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l'accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.

Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini autonomi dal rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c..

Da ciò consegue l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.

3.3. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione del fondamento di responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del dipendente sulla base dell'art. 1228 c.c..

3.4. Questa ricostruzione del rapporto struttura - paziente va condivisa e confermata.

Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione).

Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilità in primo luogo, ed anche sul piano della ripartizione e del contenuto degli oneri probatori. Infatti, sul piano della responsabilità, ove si ritenga sussistente un contratto di spedalità tra clinica e paziente, la responsabilità della clinica prescinde dalla responsabilità o dall'eventuale mancanza di responsabilità del medico in ordine all'esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con l'esito dell'intervento chirurgico.

Non assume, in particolare, più rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o convenzionata, oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l'intervento presso una struttura privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità contrattuale dell'Ente.

4.1. Inquadrata nell'ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell'onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio - condiviso da questo Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.

4.2. La giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, applicando questo principio all'onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico ha ritenuto che gravasse sull'attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l'azione o l'omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).

4.3. Il punto relativo alla prova del nesso di causalità non può essere condiviso, nei termini in cui è stato enunciato, poiché esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche S.U. 28.7.2005, n. 15781).

5.1. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull'utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale, ancorché operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato contrasti sia in ordine all'oggetto o contenuto dell'obbligazione, sia in relazione all'onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità del professionista.

Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell'attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l'attività richiesta nel modo dovuto.

In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l'ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall'aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.

Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione.

5.2. Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.

In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti Autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.

5.3. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell'onere della prova e l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità, operandosi non di rado, per ampliare la responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso (cfr. segnatamente, per quanto riguarda la responsabilità professionale del medico: Cass. 19.5.2004, n. 9471), definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio.

5.4. Sotto il profilo dell'onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.

5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina.

Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell'onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno.

Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.

Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.

6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l'attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell'affezione patologica già in atto al momento del ricovero.

7.1. Per quanto concerne, in particolare, l'ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all'interno della struttura sanitaria, gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo dell'intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (c.d. tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all'art. 1176 c.c. nell'esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella singola fattispecie.

7.2. Ne consegue che la sentenza impugnata, la quale ha posto a carico del paziente (creditore) la prova che al momento del ricovero esso non fosse già affetto da epatite, ha violato i principi in tema di riparto dell'onere probatorio, fissati in tema di azione per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.

8.1. Tale dato relativo alle patologie in corso, peraltro, doveva già emergere dai dati anamnestici prossimi e dagli accertamenti ematici di laboratorio, cui il paziente doveva essere sottoposto prima dell'intervento chirurgico e della trasfusione; dati che dovevano essere riportati sulla cartella clinica.

A tal fine va condiviso l'orientamento giurisprudenziale (Cass. 21.7.2003, n. 11316; Cass. 23.9.2004, n. 19133), secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell'onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la "vicinanza alla prova", e cioè la effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla.

8.2. Quanto al valore probatorio del verbale della Commissione medico-ospedaliera di Chieti, va osservato che trattasi della Commissione di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, composta da ufficiali medici ed istituita presso ospedali militari, ai fini dell'indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.

L'art. 4, statuisce che: "1. Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell'integrità psico-fisica o la morte è espresso dalla commissione medico-ospedaliera di cui al testo unico approvato con D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, art. 165. 2. La commissione medico-ospedaliera redige un verbale degli accertamenti eseguiti e formula il giudizio diagnostico sulle infermità e sulle lesioni riscontrate. 3. La commissione medico-ospedaliera esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio".

8.3. Al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell'indennizzo di cui alla legge, tali verbali hanno lo stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico ufficiale fuori dal giudizio civile ed in questo prodotto. Pertanto essi fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento (Cass. 20/07/2004, n. 13449; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 12/05/2003, n. 7201).

9.1. Infondata è l'eccezione di carenza di legittimazione passiva avanzata dai resistenti eredi T., sotto il profilo che il de cuius dr. T. non poteva essere tenuto ad un controllo sulla qualità dei campioni di sangue trasfuso.

L'istituto della legittimazione ad agire o a contraddire il giudizio (legittimazione attiva o passiva) si ricollega al principio dettato dall'art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e comporta - trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza "inutiliter data" - la verifica, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale pronuncia di inammissibilità della domanda), circa la coincidenza dell'attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatati degli effetti della pronuncia richiesta. Dalla questione relativa alla legittimazione si distingue quella relativa alla effettiva titolarità del rapporto giuridico dedotto in causa, che non può essere rilevata d'ufficio dal giudice dell'impugnazione in difetto di specifico gravame. (cfr. Cass. 17.7.2002, n. 10388; Cass. 27/10/1995, n. 11190).

Nella fattispecie l'eccezione, così come prospettata, attiene non alla legittimazione passiva ma alla titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio. Ciò comporta che la questione non possa essere rilevata d'ufficio da questo Collegio.

9.2. Ove sul punto si fosse pronunziato il Giudice di appello, affermando tale titolarità passiva, pur rigettando poi l'appello per altre ragioni, la questione poteva essere proposta con ricorso incidentale condizionato.

Non essendosi il Giudice pronunziato, e quindi non essendoci sul punto una soccombenza per quanto virtuale, la questione non avrebbe potuto essere proposta a questa Corte con impugnazione incidentale, ma l'accoglimento del ricorso principale comporta la possibilità di riesame nel giudizio di rinvio di detta eccezione (Cass. 20/08/2003, n. 12219).

10. In definitiva va accolto il ricorso nei termini suddetti; va cassata,in relazione, l'impugnata sentenza e la causa va rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si uniformerà ai seguenti principi di diritto:

A) In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.

Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2008
 


DANNO NON PATRIMONIALE: PRESUPPOSTI E CRITERI DI RISARCIBILITA'

L'art. 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c.: e cioè la condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso. Il danno non patrimoniale e' risarcibile nei soli casi "previsti dalla legge", e cioè, (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; (b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato; (c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno quando la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, come nel caso di molestie causate da ripetute infondate richieste di pagamento del canone televisivo.

 

Cass. civ. Sez. Unite, 19-08-2009, n. 18356  

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 9 novembre 2004 C.C. conveniva in giudizio dinanzi al giudice di pace di Benevento la RAI Radiotelevisione Italiana spa deducendo che in data 21.10.2004 le era stato inviato da tale società sollecito di pagamento del canone televisivo; che tale sollecito era stato preceduto da altri due inviati il 29 aprile e il 3 maggio dello stesso anno ai quali era stato risposto compilando questionario - cartolina specificandosi che il suo nucleo familiare già provvedeva a pagare annualmente il canone il cui abbonamento era intestato ad uno dei componenti effettivi e conviventi della famiglia;che la ricezione continua di detti solleciti, nonostante le risposte inviate, le creava danni da disagio, discredito, ansia e stress.

Chiedeva pertanto, previa declaratoria di infondatezza della richiesta inoltratale dalla convenuta, la condanna della medesima a titolo di risarcimento danni al pagamento della somma ritenuta di giustizia, anche facendo ricorso all'art. 1226 c.c., oltre interessi e rivalutazione, il tutto da contenersi entro l'importo di Euro 1.000,00 e comunque entro i limiti di competenza per valore del giudice adito.

Instauratosi il contraddittorio la RAI, deducendo la natura di imposta del canone di abbonamento alla televisione di Stato, eccepiva preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice adito in favore del giudice tributario, l'incompetenza per materia e per territorio in favore della competenza esclusiva della Commissione Tributaria di Torino, il proprio difetto di legittimazione passiva per essere gli importi del canone destinati all'Amministrazione finanziaria dello Stato e contestava nel merito la fondatezza della pretesa avversaria perchè non provata e per l'insussistenza comunque dei presupposti risarcitori di cui all'art. 2059 c.c..

Con sentenza del 22 settembre 2005 il giudice di pace, dichiarata la propria competenza, dichiarava la società convenuta responsabile del danno esistenziale strettamente connesso alle ripetute e arbitrarie diffide di pagamento indirizzate all'attrice e la condannava al pagamento in favore della predetta della somma di Euro 199,20 a titolo di risarcimento danni, oltre rivalutazione ed interessi dalla domanda al soddisfo e alle spese processuali distraende in favore del procuratore antistatario.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la RAI Radiotelevisione italiana spa sulla base di cinque motivi, il primo dei quali attinente alla giurisdizione.

Non ha spiegato attività difensiva in questa sede l'intimata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si denunzia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 5, difetto di giurisdizione del giudice ordinario nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Osserva la ricorrente che avendo la C. proposto la domanda risarcitoria, previa declaratoria di infondatezza della richiesta inoltrata dalla convenuta, quella domanda in tanto poteva essere scrutinata dal giudice di pace in quanto fosse stata previamente accertata dal giudice "competente" vale a dire dal giudice tributario (essendo il canone di abbonamento un'imposta) l'insussistenza dell'obbligo di pagamento del canone medesimo da parte della nominata C. e la conseguente illegittimità delle relative richieste di pagamento.

La doglianza è infondata giacchè correttamente il giudice "a quo" ha ritenuto la propria giurisdizione avendo la C. proposto un'azione risarcitoria fondata sull'illegittimità dei solleciti di pagamento del canone televisivo dopo che vi erano state già comunicazioni di non essere tenuta al detto pagamento.

Del resto in fattispecie del tutto analoga la Sezione Terza di questa Suprema Corte, con sentenza n. 12885 del 4 giugno 2009, ha ritenuto la propria giurisdizione, implicitamente rigettando l'eccezione della RAI di difetto di giurisdizione del giudice ordinario.

Con il secondo mezzo si deduce, in riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 2, l'incompetenza per materia, e territorio del giudice adito, nonchè omessa, contraddittoria e/o insufficiente motivazione sul punto.

Rileva parte ricorrente la immotivata reiezione da parte del giudice "a quo" delle proposte eccezioni di incompetenza per materia e per territorio.

Assume che vertendosi in tema di imposta la competenza apparteneva alla Commissione Tributaria di Torino, luogo dove era sorta e doveva eseguirsi l'obbligazione di pagamento del canone da parte delle C..

Il motivo è infondato stante la testè ritenuta giurisdizione del giudice ordinario "in subiecta materia".

Con il terzo motivo si denunzia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omessa motivazione in ordine all'eccezione di difetto di legittimazione passiva.

Rileva la ricorrente che il soggetto legittimato ad incassare le somme relative al canone televisivo è l'Amministrazione Finanziaria dello Stato e precisamente l'Agenzia delle Entrate-Ufficio di Torino.

Non aveva alcun rilievo, ai fini della legittimazione passiva sull'istanza risarcitoria, la circostanza che l'invito al pagamento provenisse da essa RAI, giacchè tali inviti venivano inoltrati ai soggetti inseriti nell'elenco stilato e tenuto dall'Agenzia delle Entrate, con la quale essa ricorrente collaborava per la riscossione del tributo.

Con il quarto mezzo si deduce, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 101, 102 e 113 c.p.c., art. 24 Cost., e art. 111 Cost., comma 6, e dell'art. 2043 cc da cui desumere il principio dell'ordinamento applicabile anche in sede di giudizio di equità, nonchè omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Osserva parte ricorrente che essendo l'A.F. sostanzialmente destinataria degli effetti della sentenza del giudice di pace essa doveva assumere nel giudizio il ruolo di necessario contraddittore.

In realtà l'A.F. era il vero ed effettivo soggetto titolare del rapporto d'imposta mentre la RAI, mera "longa manus" era priva di legittimazione sostanziale.

L'A.F. doveva considerarsi pertanto parte necessaria del giudizio in cui si verteva sulla legittimità o meno dell'invio di comunicazioni che facevano parte del procedimento tributario di accertamento della debenza di un'imposta che andava a beneficio diretto del bilancio dello Stato. Mentre essa RAI, recapitando gli avvisi in parola, dai quali peraltro nessun obbligo o sanzione scaturiva a carico dei destinatari, si limitava a svolgere un'attività doverosa, di carattere materiale e meramente strumentale rispetto alle funzioni di accertamento e riscossione del canone di abbonamento televisivo, di esclusiva competenza dell'A.F..

I due motivi, da esaminarsi congiuntamente stante la loro stretta connessione, sono inammissibili. Essi, invero, pur formalmente deducendo violazione di norme processuali e di principi informatori del diritto, esulano dalle censure consentite in sede di legittimità avverso le sentenze emesse secondo equità dal giudice di pace.

Merita puntualizzare che non è in discussione la "legitimatio ad causam", che è istituto processuale ricollegabile al principio di cui all'art. 81 c.p.c., e riferibile al soggetto che ha il potere di esercitare l'azione in giudizio ovvero nei cui confronti tale azione può essere esercitata, bensì si eccepisce l'effettiva titolarità passiva della pretesa risarcitoria, sul presupposto dell'estraneità al fatto dedotto in giudizio. Trattasi di una questione che comporta una disamina e una decisione attinente al merito della controversia e non alle regole procedurali, con la conseguenza che, in relazione ad essa, non è esperibile il ricorso per cassazione, ammesso - avverso le sentenze pronunciate, come quella in esame, dal giudice di pace secondo equità - oltre che per violazione delle regole procedurali, solo per violazione di norme costituzionali e comunitarie di rango superiore alle norme ordinarie o dei principi informatori della materia e per carenza assoluta, mera apparenza o radicale ed insanabile contraddittorietà della motivazione e non anche per violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, (vedi sul punto la citata sentenza n. 12885/2009).

Con il quinto motivo si denunzia, infine, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, violazione del principio del "neminem laedere" desumibile dall'art. 2043 c.c., come principio dell'ordinamento applicabile anche in sede di giudizio deciso secondo equità.

Osserva la ricorrente che essendo assorbenti i rilievi svolti attinenti a questioni meramente processuali doveva considerarsi superflua una dettagliata analisi della gravata sentenza nella parte relativa al merito della controversia, dovendo questa Suprema Corte cassare senza rinvio. Rileva, comunque, nel merito che il giudice "a quo" avrebbe potuto qualificare in termini di illiceità anche ex art. 2043 c.c., o sulla base di un più generale principio equitativo al quale tale norma si riporta, la comunicazione di essa RAI soltanto qualora avesse motivatamente dimostrato che tale comunicazione avesse caratteristiche tali da integrare un"aggressione alla sfera psico-fisica di una persona normale".

Sotto tale profilo era intuitivo, ad avviso della RAI, che una mera comunicazione (dalla quale non conseguiva alcun effetto giuridicamente rilevante) non aveva nè un carattere obbligante nè tanto meno coercitivo e quindi per definizione non costituiva molestia.

Il motivo di ricorso riguarda il punto della decisione che ha riconosciuto il risarcimento a titolo di danno esistenziale identificato nella costrizione indotta ripetutamente ad occuparsi delle problematiche attinenti all'obbligatorietà dell'abbonamento alla televisione e nel turbamento della quiete e tranquillità psichica della C., destinataria di immotivate diffide, con prospettazione reiterata di accertamenti e sanzioni, produttiva di un clima di intimidazione arbitraria, causa di disagio, ansia e stress. Il motivo è fondato nei termini che seguono. Come è noto queste Sezioni Unite, con quattro contestuali sentenze di contenuto identico (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 in data 11 novembre 2008)hanno di recente proceduto ad una rilettura in chiave costituzionale del disposto dell'art. 2059 cc, ritenuto principio informatore del diritto, come tale vincolante anche nel giudizio di equità, da leggersi - non già come disciplina di un'autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all'art. 2043 c.c. - bensì come norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all'interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie) sul presupposto dell'esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c., e cioè: la condotta illecita, 'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso.

In tale prospettiva la peculiarità del danno non patrimoniale viene individuata nella sua tipicità, avuto riguardo alla natura dell'art. 2059 c.c., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e quindi ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili presieduti dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione in quest'ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l'interesse leso e non il pregiudizio conseguentemente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario).

Ciò precisato, si osserva che, nella specie, non sussiste un'ingiustizia costituzionalmente qualificata, tantomeno si verte in un'ipotesi di danno patrimoniale, risultando, piuttosto, la ritenuta lesione della "quiete e tranquillità psichica" insuscettibile di essere monetizzata siccome inquadrabile in quegli sconvolgimenti della quotidianità "consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione" (oggetto delle c.d. liti bagatellari) ritenuti non meritevoli di tutela risarcitoria (vedi la citata sentenza n. 12885/2009, nonchè Cass. Sez. 3^ n. 8703/2009).

In conclusione, rigettati i primo quattro motivi, il quinto va accolto e, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 2, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, posto che, non essendo necessari accertamenti di fatto, va pronunciato nel merito e - in applicazione dei principi affermati da queste Sezioni Unite sopra richiamati - la domanda di risarcimento della C. va rigettata.

Le spese dell'intero processo vanno integralmente compensate tra le parti avuto riguardo al rigetto dei primi quattro motivi nonchè alla relativa novità e alla natura delle questioni trattate con il quinto.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il quinto motivo del ricorso, rigetta gli altri;cassa, in relazione al motivo accolto l'impugnata sentenza e decidendo nel merito rigetta la domanda di risarcimento danni proposta da C.C..

Compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 26 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2009                              

 


 
 

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