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RISARCIMENTO DANNI. PRESCRIZIONE E DECADENZA

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 18-11-2008 n. 27337

 

Qualora l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso per difetto di querela, la prescrizione dell'azione risarcitoria rimane comunque regolata dall'art. 2947, co. 3, prima parte, c.c. Affinché la pretesa risarcitoria possa considerarsi soggetta all'eventuale più lungo termine prescrizionale previsto per il reato, è sufficiente che il giudice civile accerti incidenter tantum e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile, l'astratta sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi. Detto termine di prescrizione decorre dalla data del fatto.

 

 

 

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 18-11-2008 n. 27337

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  Con atto notificato il 24.3.1999 N.A. e P. C., in proprio e quali legali rappresentanti dei figli minori P., D. e L., convenivano in giudizio dinanzi al tribunale di Torino M.G. e R.A., rispettivamente conducente e proprietario di un'autovettura Fiat Panda, nonchè l'Axa Assicurazioni s.p.a., quale impresa assicuratrice, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti a sinistro stradale, avvenuto il (OMISSIS), nel quale era rimasto coinvolto il minore N.P., che aveva riportato lesioni personali con postumi permanenti invalidanti del 100%. Si costituivano i convenuti, eccependo l'improcedibilità della domanda e la prescrizione biennale.

Il Tribunale di Torino, con sentenza depositata il 9.9.2000, dichiarava improcedibile tutte le domande, ad eccezione di quella del minore N.P., il cui diritto veniva dichiarato prescritto.

Proponeva appello N.A. nella qualità di tutore provvisorio del figlio N.P.. Resistevano gli appellati.

La corte di appello di Torino respingeva l'appello con sentenza depositata il 17.10.2002.

Riteneva la corte di merito che nella fattispecie era applicabile il termine biennale di prescrizione di cui all'art. 2947 c.c., comma 2, non essendo stata proposta querela per il reato di lesioni, secondo quanto statuito da Cass. S.U. n. 5121 del 2002; che non era stata effettuato nei termini alcun atto interruttivo; che la documentazione esibita in appello non era ammissibile a norma dell'art. 345 c.p.c..

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione N. A., nella qualità di tutore di N., che ha anche presentato memoria.

Resiste con controricorso l'Axa Assicurazioni s.p.a. La terza Sezione civile di questa Corte, ravvisando un possibile contrasto tra i principi posti a base della decisione delle S.U. n. 1479 del 1997 e quelli su cui si fonda la sentenza n. 5121 del 2002, che aveva espressamente ritenuto che la mancanza di querela rendeva inapplicabile il più lungo termine di prescrizione di cui al comma terza dell'art. 2947 c.c., ed in ogni caso ritenendo di non condividere tale ultima decisione, tenuto conto dell'evoluzione legislativa e giurisprudenziale, rimetteva gli atti al Primo Presidente, che ne disponeva l'assegnazione alle Sezioni Unite Civili.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2947 c.c., comma 3, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che, in ipotesi di lesioni da sinistro stradale, l'applicabilità del più lungo termine prescrizionale di cui all'art. 2947 c.c., comma 3, rispetto a quello previsto dal cit. art. comma 2, non può essere esclusa dalla circostanza che non sia stata presentata querela per il reato di lesioni colpose, tenuto conto che la querela è solo una condizione di procedibilità del reato e non un elemento sostanziale dello stesso; che ciò comporta una disparità di trattamento con le - ipotesi in cui per il reato si procede di ufficio; che, in ogni caso, tale interpretazione penalizza i danneggiati dal reato, che non siano anche persone offese e quindi titolari del diritto di querela.

2. Il motivo è fondato e va accolto.

Le norme giuridiche di riferimento sono racchiuse nell'art. 2947 c.c., in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno.

Il comma 1, dell'art. in questione prevede la prescrizione breve del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, fissando in anni cinque il termine relativo, con decorrenza dal giorno in cui il fatto si è verificato. Il comma 2, prevede un termine ancora più breve, pari ad anni due, per la sola ipotesi di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie.

Infine, il comma 3, dispone, nella prima parte, che in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile.

Prosegue stabilendo che tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile.

Si tratta, come è evidente, di un regime prescrizionale singolarmente articolato ed asimmetrico che, in linea generale, per le istanze risarcitorie scaturenti da fatto illecito, stabilisce un termine di prescrizione più breve rispetto a quello ordinario di dieci anni; in chiave derogatoria (rispetto a quella linea generale), un termine ancora più contenuto, per l'ipotesi in cui il fatto generatore del danno si riconnetta alla specifica dinamica della circolazione stradale; e da ultimo, con riferimento ad entrambe le fattispecie risarcitorie (fatto illecito ordinario e fatto illecito da circolazione dei veicoli di ogni specie), una norma di rinvio in bianco quanto alla durata del termine, nel caso in cui quel fatto dannoso è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, giacchè, in tale ipotesi, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno è commisurato al termine prescrizionale previsto dal reato, ove sia più breve di questo.

La norma è in bianco in quanto, come è risaputo, l'art. 157 c.p., nel determinare il tempo necessario a prescrive, non stabilisce una misura temporale fissa, bensì un ordine decrescente di maturazione (anche dopo la modifica apportata dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251) in rapporto ai diversi limiti di pena edittale. Di talchè, se ed in quanto il fatto generatore del danno sia considerato dalla legge come reato e se ed in quanto per il reato sia previsto (in base alla pena edittale) un termine di prescrizione superiore - rispettivamente - a cinque od a due anni, trova applicazione anche per l'azione civile il più lungo termine prescrizionale previsto per il reato.

3.1. In merito all'interpretazione di tale norma si sono avuti vari contrasti.

Un primo atteneva agli effetti in sede civile delle cause di interruzione e sospensione della prescrizione di natura penale del reato. Esso fu risolto dalle S.U. con l'affermazione del principio secondo cui in base all'art. 2947 c.c., comma 3, il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, che sia considerato dalla legge come reato, si prescrive nello stesso termine di prescrizione del reato se quest'ultimo si prescrive in un termine superiore ai cinque anni, mentre si prescrive in cinque anni se per il reato è stabilito un termine uguale o inferiore, nel qual caso il termine di prescrizione dell'azione civile decorre dalla data di consumazione del reato e non assumono rilievo eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato, essendo ontologicamente diversi l'illecito civile e quello penale (Cass. Sez. Unite, 18/02/1997, n. 1479).

Un secondo contrasto aveva ad oggetto il dies a quo della decorrenza della prescrizione. Ritennero le S.U. che, in caso di fatto illecito che costituisca anche reato, per il quale sia stato pronunciato decreto di archiviazione (nel regime dell'abrogato codice di rito) per mancanza di querela, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno comincia a decorrere dalla data del provvedimento di archiviazione, senza che invece rilevi la data del visto apposto dal p.m. al decreto stesso (Cass. Sez. Unite, 02/10/1998, n. 9782).

3.2. Un terzo contrasto aveva ad oggetto la durata del termine prescrizione nell'ipotesi in cui reato fosse procedibile a querela e questa non fosse stata presentata (caso identico a quello riproposto all'esame di queste S.U.).

Hanno ritenuto le S.U. che in tema di danni derivanti dalla circolazione dei veicoli, ove il fatto illecito integri gli estremi di un reato perseguibile a querela e quest'ultima non sia stata proposta, trova applicazione, ancorchè per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella civile, la prescrizione biennale di cui all'art. 2947 c.c., comma 2, decorrente dalla scadenza del termine utile per la presentazione della querela medesima (Cass. S.U., 10/04/2002, n. 5121). A questa conclusione la Corte, in conformità con le ragioni addotte dalla giurisprudenza e dottrina conformi a tale orientamento, giungeva sulla base della pretesa ratio ispiratrice dell'art. 2947, comma 3.

Riteneva la corte che essa, già indicata "nell'esigenza di tutela dell'affidamento del danneggiato nella conservazione del diritto (al risarcimento) per la prevedibile durata della pretesa punitiva dello Stato" (Cass., 22 maggio 1996 n. 4740), è stata enunciata con particolare chiarezza, sia pure incidentalmente, nella sentenza delle Sezioni Unite 2 ottobre 1998 n. 9782, affermando che "la ragione giustificatrice dell'aggancio del termine prescrizionale dell'azione civile a quello eventualmente più lungo di prescrizione dell'azione penale (art. 2947 c.c., comma 3) va individuata nell'esigenza di evitare che l'autore di un reato, dichiarato responsabile e condannato in sede penale, resti esente dall'obbligo di risarcimento verso la vittima - il cui diritto rimarrebbe vanificato - in conseguenza dell'avvenuta più breve prescrizione civile durante il tempo necessario per l'accertamento della responsabilità penale, o, comunque, di impedire che l'azione di risarcimento del danno si estingua quando è ancora possibile che l'autore del fatto sia perseguito penalmente".

Questa essendo la "ratio" dell'eccezionale assimilazione della prescrizione civile a quella, eventualmente più lunga, prevista per il fatto - reato, era di tutta evidenza che siffatta esigenza veniva meno nell'ipotesi in cui la querela, necessaria per la perseguibilità concreta dell'illecito penale, non fosse stata proposta perchè, non essendo mai stato avviato un procedimento, era escluso il rischio che il diritto risarcitorio del soggetto danneggiato possa estinguersi, "medio tempore", per effetto della normale prescrizione biennale.

Inoltre, a fronte se non proprio di una volontà contraria all'esercizio dell'azione penale, quanto meno di un disinteresse così manifestato implicitamente dal danneggiato, non avrebbe avuto alcun senso accordargli il favore di un più lungo termine di prescrizione, essendo la querela una condizione di procedibilità "sui generis", dipendente in via esclusiva dalla sola volontà dell'interessato. Ne conseguiva che, ove la querela non fosse stata proposta, doveva trovare applicazione la prescrizione biennale di cui al cit. art. 2947 c.c., comma 2. Inoltre osservava la Corte che non si ravvisava alcuna valida - ragione logico - giuridica per trattare differentemente l'ipotesi di estinzione per remissione della querela (art. 152 c.p.) e, quindi, di sopravvenuta improcedibilità dell'azione penale, a quella di mancanza della querela, cioè di improcedibilità originaria, considerando il disposto della seconda parte del comma ("tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione ... il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati nei primi due commi").

4.1. A questa sentenza delle S.U. n. 5121 del 2002, le Sezioni semplici si sono uniformate ed hanno costantemente affermato che "In tema di danni derivanti dalla circolazione dei veicoli, ove il fatto illecito integri gli estremi di un reato perseguibile a querela e quest'ultima non sia stata proposta, trova applicazione, ancorchè per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella civile, la prescrizione biennale di cui all'art. 2947 c.c., comma 2, decorrente dalla scadenza del termine utile per la presentazione della querela medesima". Ciò è stato affermato sulla base della pretesa ratio della norma, sopra esposta (ex multis: Cass. 05/06/2007, n. 13057; Cass. 11885 del 2007; Cass. 27169 del 2006;

Cass. 19297 del 2006; Cass. n. 5227 del 2006; Cass. n. 4661 del 2006;

Cass. n. 2521 del 2006).

Non si rinvengono, anzi, sentenze che abbiano affermato un principio contrario nelle ipotesi in cui il reato fosse procedibile a querela e questa non fosse stata proposta. Il contrasto, invece, si ravvisa tra il principio che è alla base di questo orientamento, ormai consolidato (secondo cui se non è stato iniziato procedimento penale, sia pure per mancanza di querela, non vi è ragione per la più lunga prescrizione di cui all'art. 2047 c.c., comma 3) e quello espresso in altre pronunzie, che pur non attenendo ad ipotesi di reati procedibili a querela (generalmente casi di omicidio colposo a seguito di circolazione stradale), hanno invece affermato che: "Se il fatto illecito per il quale si aziona il diritto al risarcimento del danno è considerato dalla legge come reato e per questo la legge stabilisce una prescrizione più lunga di quella di cinque anni prevista dall'art. 2947 c.c., comma 1, ai sensi del cit. art. comma 3, prima parte, quest'ultima si applica anche all'azione civile, indipendentemente dalla promozione o meno dell'azione penale, essendo il maggior termine di prescrizione correlato solo alla astratta previsione dell'illecito come reato e non alla sentenza irrevocabile penale, che rileva solo ai fini dell'art. 2947 c.c., comma 3, u.p." (Cass., 26/02/2004, n. 3865; Cass. 30 ottobre 2003, n. 16305; Cass. 19.1.2007; n. 1206; Cass. 29/09/2004, n. 19566).

In questi casi si è ritenuto che, nonostante il decreto di archiviazione in sede penale, non fosse precluso al Giudice civile accertare, incidenter tantum, l'esistenza del fatto - reato, al fine di applicare il più lungo termine prescrizionale di cui all'art. 2947 c.c., comma 3. 5.1. Ritengono queste S.U. che vada rivisitato il principio espresso da Cass. S.U. n. 5121 del 2002, in caso di improcedibilità del reato per mancanza di querela, in modo da armonizzarlo con il più generale principio in tema di termine di prescrizione emergente dalla lettera dell'art. 2947 c.c., comma 3, prima parte - secondo cui l'applicabilità di tale norma prescinde dalla procedibilità o meno del reato.

Sono due le condizioni che rendono applicabile l'art. 2947 c.c., comma 3: la configurabilità di un reato nel fatto dannoso; e la previsione per la prescrizione del reato di un termine più lungo di quelli stabiliti nel cit. art. 2947 c.c., primi due commi.

Il concorso di entrambe queste condizioni, che va preliminarmente accertato, rende applicabile una disciplina della prescrizione che è in ogni caso derogatoria rispetto a quella dettata dall'art. 2947 c.c., primi due commi, (o per l'entità o per la decorrenza del termine di prescrizione).

Ciò che è discusso è se l'applicazione dell'art. 2947 c.c., comma 3, richieda l'effettiva perseguibilità del reato.

Sicchè occorre innanzitutto accertare cosa intenda la norma per "fatto considerato dalla legge come reato". 5.2. In dottrina si discute in particolare se l'art. 2947 c.c., sia applicabile quando manchi la querela necessaria per la procedibilità o, secondo altri, per la punibilità del fatto dannoso previsto come reato.

Coloro che considerano la querela come condizione di procedibilità, ritengono che l'applicabilità dell'art. 2947 c.c., comma 3, prescinda dalla proposizione della querela eventualmente necessaria per la promovibilità dell'azione penale; sicchè il diritto al risarcimento del danno cagionato da un fatto punibile a querela di parte si prescrive nel termine previsto per il reato anche quando la querela non sia stata proposta.

5.3. Coloro che considerano la querela come condizione per la configurabilità stessa di un reato, ritengono, invece, che la mancanza della querela eventualmente necessaria, escludendo la punibilità del fatto dannoso, sottoponga la pretesa risarcitoria ai termini di prescrizione fissati dal cit. art. 2947 c.c., primi due commi.

Taluno ha sostenuto anche che la stessa possibilità di instaurare un procedimento penale condizioni l'applicabilità dell'art. 2947 c.c., comma 3; sicchè vanno applicati i più brevi termini di prescrizione previsti dall'art. 2947 c.c., primi due commi, anche in ogni altro caso in cui manchi una condizione di procedibilità come la richiesta, l'istanza o l'autorizzazione a procedere.

Nell'ambito di questa seconda impostazione è ricorrente la commistione tra condizioni di applicabilità e contenuti della disciplina dettata dall'art. 2947 c.c., comma 3. Si sostiene, infatti, che il più breve termine di prescrizione non decorra dal giorno in cui il fatto si è verificato, come prevede l'art. 2947 c.c., comma 1, che pure è considerato applicabile, bensì dal momento in cui si decade dal diritto di proporre la querela o dal momento in cui l'impromovibilità dell'azione penale viene dichiarata.

Altri sostengono che la previsione di "fatto considerato dalla legge come reato" sussiste quando per il fatto stesso l'azione penale sia proponibile, quando sia pendente procedimento penale, oppure ancora quando la procedibilità1 penale si sia arrestata in limine per archiviazione o sentenza di non doversi procedere.

5.4. In realtà questo orientamento dottrinale e giurisprudenziale compie una duplice forzatura interpretativa della lettera dell'art. 2947 c.c.,comma 3, resa necessaria dalla mancata distinzione tra condizioni di applicabilità e contenuto della disciplina dettata da questa norma.

E', infatti, una forzatura interpretativa intendere il riferimento della norma a un "fatto considerato dalla legge come reato" nel senso di "fatto per il quale possa essere iniziato un procedimento penale";

ed è ancora una forzatura interpretativa ritenere applicabili le decorrenze fissate dall'art. 2947 c.c., comma 3, ai termini di prescrizione stabiliti nel cit. art. primi due commi, anche quando si ritiene che il fatto non sia qualificabile come reato.

6. In effetti la lettera della norma, ai fini del più lungo termine di prescrizione di cui all'art. 2947 c.c., comma 3, non richiede assolutamente che il fatto di reato sia procedibile, ovvero che per esso si sia effettivamente proceduto penalmente, ma solo che il fatto sia "considerato dalla legge come reato".

Ciò significa che il fatto deve avere gli elementi sostanziali soggetti ed oggettivi del reato, astrattamente previsto, mentre le condizioni di procedibilità (tra cui la querela) hanno natura solo processuale e non sostanziale.

E' infatti decisamente superata in materia processualpenalistica la tesi minoritaria e datata, secondo cui la querela costituisse una condizione di punibilità ed avesse, quindi natura sostanziale, per cui la sua mancanza impediva che il fatto potesse considerarsi reato (Cass. pen. Sez. 3^, 8.4.1971, n. 1359).

La querela non assurge a rango di elemento essenziale della struttura del reato, nè concorre a definire il tipo di illecito ed il contenuto del disvalore del fatto che, invece, si presuppone già realizzato (la querela viene proposta dalla persona già "offesa" dal reato).

Neppure può ravvisarsi nella querela una condizione di punibilità, poichè detta condizione attiene, a sua volta, alla fattispecie materiale in senso ampio e si collega al "dovere sostanziale di punire".

Inoltre, e soprattutto, l'art. 345 c.p.p., vigente espressamente individua nella querela una condizione di procedibilità (Cass. pen., Sez. 5^, 11/10/2005, n. 38967; Cass. pen., Sez. 6^, 20/10/2004, n. 44929).

7. Peraltro l'orientamento dottrinale che sostiene che la mancanza di querela esclude l'applicabilità dell'art. 2047 c.c., comma 3, è in contrasto con la soluzione adottata allorchè si è posto il problema del termine applicabile quando il "fatto considerato dalla legge come reato" sia commesso da persona non imputabile. Qui le risposte fornite sono univoche nel senso che, trattandosi di fatto configurabile come reato, debbano applicarsi i termini fissati dal cit. art. comma 3.

In giurisprudenza non si rinvengono decisioni di legittimità in proposito. Tuttavia assume rilevanza la giurisprudenza che ritiene risarcibile il danno non patrimoniale derivante dal reato commesso da persona non imputabile.

Quest'orientamento giurisprudenziale, relativo all'interpretazione dell'art. 2059 c.c., e art. 185 c.p., che prevedono la risarcibilità del danno morale derivante da reato, è, infatti, fondato sull'assunto che occorra fare riferimento all'astratta configurabilità del fatto come reato e non alla sua concreta punibilità (Cass., sez. U, 6 dicembre 1982, n. 6651; Cass. 20 novembre 1990, n. 11198). Ciò viene affermato non solo nelle ipotesi in cui l'autore del fatto di reato sia un soggetto non imputabile, ma anche nel caso in cui per il reato non si sia proceduto penalmente(Cass. 15/01/2005, n. 729; Cass. 11.2.1988, n. 1478; Cass. 24/02/2006, n. 4184; Cass. 16/01/2006, n. 720). 8.1. Rimane, quindi, a sostegno della tesi secondo cui la mancanza di una condizione di procedibilità rende inapplicabile l'art. 2047 c.p.c., comma 3, solo la presunta ratio assegnata a tale norma, e cioè quella di evitare che per il medesimo fatto l'azione civile potesse estinguersi, quando l'azione penale fosse ancora in vita (rischio escluso con la decadenza dalla proponibilità della querela).

Una volta ritenuto che sulla base della lettera della legge la più lunga prescrizione di cui alla norma all'art. 2947 c.c., comma 3, è applicabile ogni qual volta il fatto è "considerato dalla legge come reato", sotto il profilo ontologico, indipendentemente dal punto se poi si sia effettivamente proceduto penalmente o meno (e ciò non solo con riguardo ai reati procedibili d'ufficio, ma anche a quelli per i quali è necessaria una condizione di procedibilità, come appunto la querela), risulta difficile superare detta interpretazione letterale della norma sulla base di un'interpretazione correlata alla sola "ratio" della stessa. Ciò tanto più se si considera che allorchè il legislatore ha ritenuto di applicare i termini di prescrizione di cui al cit. art. 2947, commi 1 e 2, pur in presenza di un fatto di reato, ma con una diversa decorrenza, l'ha espressamente detto nella seconda parte del cit. art. 2947 c.c., comma 3. Costituisce, infatti, ulteriore argomento letterale l'omessa previsione del difetto di querela tra le situazioni tipizzate - nella seconda parte del menzionato art. 2947 c.c., comma 3, come fatti condizionanti il decorso del termine prescrizionale, al punto da consentire, nonostante la gravità del fatto, una prescrizione diversa da quella del reato, mentre l'estensione di una siffatta deroga all'ipotesi in esame non sarebbe affatto legittima, non essendo applicabile lo strumento ermeneutico dell'interpretazione analogica stante il riconosciuto carattere eccezionale della norma, rispetto alla decorrenza ordinaria.

8.2. Nè può fondatamente sostenersi che la non previsione della mancanza di querela tra le ipotesi previste nella seconda parte del comma terzo sarebbe dovuta solo all'impossibilità per il legislatore di prevedere i molteplici casi della realtà, sicchè, stante 1'incongruenza dell'assunto che una non perseguibilità iniziale debba essere disciplinata diversamente dalla non perseguibilità successiva (nelle ipotesi espressamente previste dal legislatore, quali la morte del reo, l'amnistia, la rimessione della querela), sarebbe affatto logico ritenere che al difetto di querela debba applicarsi - in virtù di interpretazione estensiva (sul rilievo della regolamentazione implicita, per il principio lex minus dixit quam voluit) - la stessa disciplina prevista per le ipotesi in cui, per fatti sopravvenuti, non sia più possibile procedere all'accertamento del fatto - reato.

A tale costruzione teorica va obiettato che le ipotesi previste dalla norma da ultimo citata integrano, per espressa definizione normativa (rispettivamente gli artt. 150, 151 e 152 c.p.), casi di estinzione del reato, e solo conseguentemente della pretesa punitiva dello Stato, e quindi rilevanti sotto il profilo sostanziale, mentre la mancata presentazione della querela attiene al diverso profilo dell'improcedibilità dell'azione penale.

9.1. In ogni caso il tema della ratio ispiratrice della particolare disciplina dell'art. 2947 c.c., merita di essere rivisitato alla luce della mutata fisionomia del sistema processualpenalistico, a seguito dell'intervenuta riforma del codice di rito, e delle più significative opzioni legislative - tra quelle immediatamente rilevanti in questo ambito civilistico - specie per quanto attiene alla natura della querela, ormai espressamente consacrata in termini di condizione di procedibilità (art. 354 c.p.c.), e più in generale ai modificati rapporti tra azione civile ed azione penale.

Anzitutto nessun elemento in favore di tale ratio deriva dalla relazione ministeriale. Essa dopo un generico riferimento alle ragioni di sicurezza, stabilità dei rapporti giuridici e necessità di salvaguardia dei diritti difensivi, ritiene - quanto alla norma in esame - che sia naturale rapportare i termini prescrizionali a quelli, eventualmente, più lunghi previsti dalla legge penale per la prescrizione del reato, ove il fatto illecito assuma anche rilevanza penale. Sennonchè, proprio l'apodittica opzione, nella sua riferita scontatezza, potrebbe offrire una significativa chiave di lettura, nella misura in cui possa ritenersi espressione dell'humus culturale che permeava la legiferazione del tempo, incontrovertibilmente ispirata al primato della giurisdizione penale su quella civile, e dunque alla priorità riconosciuta all'accertamento del fatto in ambito penalistico, non fosse altro che in ragione dei più intensi, e potenzialmente illimitati, poteri istruttori del Giudice penale rispetto a quelli conferiti al giudice civile. Ed invero, i principi cardini dell'ordinamento all'epoca vigente erano quelli dell'unitarietà della funzione giurisdizionale e della prevalenza della giurisdizione penale su quella civile, per evitare, nel superiore interesse della certezza del diritto, la possibilità di giudicati contraddittori (art. 3 c.p.p., e art. 295 c.p.c.). In ragione di tali principi ispiratori era inarcata la tendenza a spostare in sede penale l'accertamento del fatto che fosse anche fonte di responsabilità civile.

9.2. Dalla disciplina del nuovo codice di procedura penale si ricava che il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell'unitarietà della giurisdizione, come invece avveniva per il c.p.p., del 1930 ma a quello dell'autonomia di ciascun processo e della piena cognizione, da parte di ogni Giudice, delle questioni giuridiche e di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione. Consegue che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall'art. 75 nuovo c.p.p., comma 3, (azione promossa in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado), da un lato il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e, dall'altro, il Giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti (ex multis: Cass. 10/08/2004, n. 15477; Cass. 9.4.2003, n. 5530; Cass. S.U., ord., 5.11.2001, n. 13682).

In particolare, alla stregua dei principi dell'autonomia e della separazione delle giurisdizioni, non regge più la tesi relativa all'esigenza di impedire che la punibilità sopravviva alla risarcibilità, che, nel subordinare, come si è detto, l'applicabilità del più lungo termine prescrizionale all'esistenza di un procedimento penale o alla mera possibilità della sua instaurazione, risente di una filosofia di rapporti tra giudizio civile e quello penale imperniata sulla prevalenza del secondo sul primo e finalizzata ad evitare contrasti tra giudicati civili e penali.

9.3. Attualmente costituisce punto fermo che il Giudice civile si può avvalere nell'ambito dei suoi accertamenti in merito all'esistenza del fatto considerato come reato, di tutte le prove che il rito civile prevede.

Il consolidato orientamento giurisprudenziale, che escludeva la risarcibilità del danno non patrimoniale, allorquando la responsabilità dell'autore materiale del fatto illecito fosse stata affermata non già in base all'accertamento concreto dell'elemento psicologico (cioè almeno la colpa), ma in base a presunzioni, quali quelle stabilite dagli artt. 2050 a 2054 c.c., è stato modificato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte che ha invece ritenuto che "ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 e 185 c.p., non osta il mancato positivo accertamento dell'autore del danno se essa debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge (come l'art. 2054 c.c.) e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato" (Cass. 12.5.2003, n. 7281). Una volta affermata l'autonomia tra il giudizio civile e quello penale, il Giudice civile deve accertare la fattispecie costitutiva della responsabilità aquiliana, posta al suo esame, con i mezzi suoi propri e, quindi, con i mezzi di prova offerti al Giudice dal rito civile per la sua decisione.

Tra questi mezzi non solo vi è la presunzione, legale o non, ma addirittura vi sono le c.d. "prove legali", in cui la legge deroga al principio del libero convincimento del Giudice (art. 239 c.p.c., artt. 2700, 2702, 2705, 2709, 2712, 2713, 2714, 2715, 27120, 2733;

2734, 2735 e 2738 c.c.).

La categoria delle prove legali è completamente sconosciuta all'ordinamento penale.

Contemporaneamente si è ampliata la nozione di danno non patrimoniale risarcibile a norma dell'art. 2059 c.c., (cfr. Cass. n. 8827 ed 8828 del 2003).

9.4. Inoltre di recente sono stati indicati i diversi standars di certezza probatoria, esistenti tra il processo civile e quello penale. Ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti (Cass. S.U. 11/01/2008, n. 576;

Cass. S.U. 11/01/2008, n. 582).

Ciò comporta che il P.M. potrebbe non esercitare l'azione penale a fronte di una notitia criminis e chiedere l'archiviazione, sul rilievo che non sia possibile raggiungere nel dibattimento sufficienti risultati probatori ai fini dell'affermazione della responsabilità penale, tenuto conto del detto livello di certezza e dei diversi mezzi probatori a sua disposizione, mentre il - Giudice civile, che nell'accertamento incidentale del fatto di reato è sottoposto alle regole civilistiche ed all'utilizzo dei mezzi suoi propri, può ritenere l'esistenza dello stesso, con conseguente applicabilità dell'art. 2047 c.c., comma 3. In questo caso non si capirebbe perchè, pur non avendo il P.M. proceduto penalmente, la prescrizione è quella di cui alla predetta norma, mentre nell'ipotesi in cui non si è proceduto per mancanza di querela, la prescrizione è quella di cui ai primi due commi dell'art. 2947 c.c., sia pure con decorrenza dalla scadenza del termine per la presentazione della querela.

9.5. D'altra parte solo nell'ambito dell'affermata autonomia tra giudizio civile e quello penale trovano logica collocazione le affermazioni costanti in giurisprudenza, in relazione ad altri profili della prescrizione civile intesa come svincolata dallo sviluppo, sia pure potenziale, di un procedimento penale. In particolare, si intende fare riferimento all'interpretazione offerta dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1479 del 18 febbraio 1997 in ordine all'ininfluenza delle cause di sospensione ed interruzione in sede penale sul corso della prescrizione civile; ovvero all'affermazione secondo cui - qualora, in esito al processo penale, l'imputazione sia stata degradata - deve aversi riguardo al reato contestato e non già a quello ritenuto in sentenza (cfr., Cass. 4 dicembre 1992, n. 12919) ed indipendentemente dal riconoscimento delle attenuanti (come avviene in sede penale solo attualmente a seguito della sostituzione dell'art. 157 c.p., operata dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6). Ciò è l'esatto contrario di quanto vale per la prescrizione penale per la cui determinazione, come è noto, occorre tener conto del tipo di reato riconosciuto in sentenza.

10.1. Qualunque possa essere la ratio originaria dell'art. 2047 c.c., comma 3, e cioè sia quella di evitare che la pretesa risarcitoria civile si prescrivesse prima della perseguibilità penale, sia la scelta del legislatore di elevare il tempo di prescrizione in relazione al disvalore del fatto, considerato come reato, come sostenuto da alcuni, va osservato che la perdita di valenza (nell'evoluzione dell'ordinamento) della prima pretesa ratio e del conseguente criterio interpretativo su di essa fondato comporta che non possa essere superata l'interpretazione letterale del cit. art. 2947, comma 3, che equipara la prescrizione civile a quella penale, ove più lunga, sulla base della sola "considerazione" del fatto come reato sotto il profilo ontologico, indipendentemente dalla circostanza se per esso si proceda penalmente.

10.2. Nè può essere accolta la tesi, secondo cui la mancata presentazione della querela dimostrerebbe un disinteresse (un'inerzia) del soggetto offeso, da cui il legislatore farebbe discendere la non applicabilità del cit. art. 2047, comma 3, come pure sostenuto in giurisprudenza ed in dottrina.

Infatti, a parte il rilievo che ancora una volta tale osservazione non ha riscontro in indici normativi, va osservato che il cit. art. 2947, comma 3, non limita l'applicabilità della disposizione alla sola persona offesa dal reato, affermando solo che il più lungo termine prescrizionale "si applica anche all'azione civile". Come la giurisprudenza di questa Corte ha già osservato (Cass. 26/02/2003, n. 2888) la disposizione dell'art. 2947 c.c., comma 3, che prevede, ove il fatto che ha causato il danno sia considerato dalla legge come reato, l'applicabilità all'azione civile per il risarcimento, in luogo del termine biennale stabilito dal cit. art. comma 2, di quello eventualmente più lungo previsto per detto reato, è invocabile da qualunque soggetto che abbia subito un danno patrimoniale dal fatto considerato come reato dalla legge, e non solo dalla persona offesa dallo stesso.

Vincolare l'applicabilità di tale più lungo termine prescrizionale alla procedibilità dell'azione penale, e quindi, come nel caso in esame, alla presentazione della querela, significherebbe condizionare il diritto di chi sia stato danneggiato da reato, ma non sia il titolare del diritto di querela, per non essere il titolare del bene giuridico tutelato dalla norma penale, all'iniziativa di quest'ultimo, quanto meno sotto il profilo del termine prescrizionale.

Va, invece, rilevato che il trend interpretativo - evolutivo si ispira al diverso principio secondo cui è palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa, far ricadere conseguenze negative a carico di un soggetto per ritardi o omissioni di altri e perciò del tutto estranei alla sfera di disponibilità del primo (cfr. Corte Cost. 26/11/2002, n. 477).

11. Ritengono, quindi, queste Sezioni Unite che il contrasto in esame vada composto alla luce del seguente principio di diritto: "Nel caso in cui l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche se per mancata presentazione della querela, l'eventuale, più lunga prescrizione prevista per il reato, si applica anche all'azione di risarcimento, a condizione che il giudice civile accerti, incidenter tantum, e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto - reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, e la prescrizione stessa decorre dalla data del fatto, atteso che la chiara lettera dell'art. 2947 c.c., comma 3, a tenore della quale "se il fatto è considerato dalla legge come reato", non consente la differente interpretazione, secondo cui tale maggiore termine sia da porre in relazione con la procedibilità del reato".

E' appena il caso di ricordare che in relazione al dies a quo per la decorrenza della prescrizione, sinteticamente indicato nell'art. 2947 c.c., comma 1, nella locuzione "giorno in cui il fatto si è verificato", rimangono validi i principi già fissati da queste S.U. con le sentenze 11.1.2008, n. 576, 580 e 582, ed altre in pari data, con riferimento al momento in cui il soggetto danneggiato abbia avuto ( o avrebbe dovuto avere, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche) sufficiente conoscenza della rapportabilità causale del danno lamentato.

12. L'accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l'assorbimento del secondo motivo (essendosi verificato l'incidente il 24.4.1994 ed essendo stata notificata la citazione introduttiva il 24.3.1999).

13. Pertanto va accolto il primo motivo di ricorso e dichiarato assorbito il secondo. Va cassata l'impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Torino, che si uniformerà al principio di diritto esposto al punto 11.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo.

Cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese di questo giudizio cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Torino.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2008 
 

 

 

 

 


Cassazione Civile: approvazione specifica delle clausole onerose

da www.filodiritto.com 

In materia di condizioni generali di contratto previste dall'articolo 1341 Codice Civile, la Cassazione ha cassato la sentenza del giudice di secondo grado sull'assunto che questo "si è limitato a osservare incidentalmente che le condizioni generali di contratto erano state «approvate espressamente ex art. 1341 c.c.»".

Ricordiamo che a norma del citato articolo: 1. Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell'altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza. 2. In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria.

Tornando alla recente pronuncia, secondo la Cassazione "per consentire la verifica della correttezza in diritto della decisione, si sarebbe dovuto spiegare con quali modalità tale approvazione in fatto era avvenuta, dato che il ricorrente aveva contestato la sussistenza dei requisiti che unicamente avrebbero potuto portare a ritenere che essa fosse stata effettuata validamente, secondo la costante giurisprudenza di legittimità in materia (v., tra le più recenti, Cass. 29 febbraio 2008 n. 5733): ulteriore e separata sottoscrizione specificamente riferita alle clausole vessatorie, previa loro opportuna evidenziazione mediante o la ritrascrizione integrale, o quanto meno un'elencazione contenente il richiamo al preciso contenuto di ognuna".

La Cassazione ha così confermato il proprio rigoroso orientamento che ha recentemente fissato

- con la sentenza 5733/2008, secondo cui "il richiamo cumulativo numerico di gran parte delle condizioni generali di contratto, non tutte costituenti clausole vessatorie, effettuato con modalità tali da rendere difficoltosa la percezione delle stesse, non integra il requisito della specifica approvazione per iscritto, nonostante la distinta sottoscrizione del contraente per adesione. Questo principio, già affermato più volte nel caso di sottoscrizione del contraente per adesione che riguardava in blocco tutte le condizioni generali di contratto e la sottoscrizione indiscriminata di esse tutte le clausole contrattuali, senza distinzione tra clausole vessatorie e non (Cass. n. 18680/03; Cass. n. 2077/05; n. 13890/05) trova applicazione anche nel caso odierno, non sussistendo la specificità e separatezza imposte dall'art. 1341 c.c., allorchè la finalità di questa norma sia elusa mediante una tecnica redazionale non idonea a suscitare l'attenzione del sottoscrittore, in quanto insufficiente a porre in specifica e chiara evidenza le clausole oggetto di approvazione",

- con l'ordinanza 24262/2008 secondo cui: "Il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto e la sottoscrizione indiscriminata di esse apposta sotto la relativa elencazione in base al mero numero d'ordine è inidonea a determinare, ai sensi dell'articolo 1341, 2 comma, Codice Civile, l'efficacia della clausola vessatoria (rectius, onerosa) di deroga all'ordinaria competenza territoriale, essendo a tal fine necessario che la stessa risulti dal predisponente chiaramente e autonomamente evidenziata, e dall'aderente specificamente ed autonomamente sottoscritta".

 


 
 

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