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DEMANSIONAMENTO E RISARCIMENTO DEL DANNO

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO - Sentenza 14 aprile 2011, n. 8527
 

Cassazione Civile: delega del creditore per l'estinzione del pagamento

Corte di Cassazione - Sezione Prima Civile, Sentenza 13 gennaio 2012, n.390
 

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DANNI PATRIMONIALI FUTURI

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 11-11-2008, n. 26973

 

Va cassata, in parte qua, la pronuncia di merito che abbia negato ai genitori il risarcimento del danno patrimoniale futuro conseguente alla perdita delle contribuzioni economiche che il figlio, deceduto per il fatto illecito di un terzo, avrebbe effettuato a loro favore, senza dar ragione del mancato utilizzo delle presunzioni, fondate sugli elementi forniti dai danneggiati (nella specie, dovevano essere presi in considerazione l'attività lavorativa svolta dal figlio minorenne, il modesto reddito del padre, la qualità di casalinga della madre, nonché la convivenza tra i familiari.)

 

 

 

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 11-11-2008, n. 26973

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione, G.M., F.S. e G. M., rispettivamente genitori e fratello di G.L., convenivano davanti al Tribunale di Roma Z.E., M. R. e Z.M., quali eredi di Za.Ma., e la S.p.a. Nuova Tirrena, per sentirli condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti all'incidente stradale avvenuto il (OMISSIS), che aveva causato la morte di G.L., trasportato sull'auto condotta da Za.Ma., e di quest'ultimo e di altro occupante.

I convenuti resistevano. Chiedevano la riunione del giudizio a quello instaurato davanti al Tribunale di Vigevano dagli eredi di altra trasportata. La richiesta era respinta.

Il tribunale, con sentenza del 14.12.2000, dichiarava l'esclusiva responsabilità di Za.Ma. e condannava la Nuova Tirrena al risarcimento dei danni, liquidati in L. 271.932.800 per G. M., L. 260.805.000 per F.S., L. 92.747.000 per Gr.Ma..

Appellavano gli attori, chiedendo che i danni fossero liquidati in misura più elevata.

La Nuova Tirrena chiedeva la conferma della sentenza impugnata e, in ogni caso, il contenimento dei danni entro il limite del massimale.

La Corte d'appello di Roma, con sentenza del 7.5.2003, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava la Nuova Tirrena al pagamento in favore degli attori dell'ulteriore somma di Euro 5.000,00, da suddividere in proporzione delle quote di legge, a titolo di danno morale e danno biologico sofferti da G.L..

Avverso la sentenza gli originari attori hanno proposto ricorso, articolato in sei motivi.

Ha resistito la Nuova Tirrena, con controricorso recante ricorso incidentale condizionato.

All'udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al cd. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l'ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.

Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

MOTIVI DELLA DECISIONE

A) Esame della questione di particolare importanza.

1. L'ordinanza di rimessione n. 4712/2008 - relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l'ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l'uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale - inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell'integrità psico-fisica, e dal cd. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto - l'altro contrario.

Osserva l'ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell'art. 2059 c.c. ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.

A questo orientamento, prosegue l'ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c. ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del "danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.

Ricorda ancora l'ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito "esistenziale":

tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perchè non presuppone l'esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perchè non costituirebbe un mero patema d'animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l'ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest'ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.

L'ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.

Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c.. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l'ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.

Così riassunti i contrapposti orientamenti, l'ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto "quesiti". 1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.

3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale "tipico", nega la concepibilità del danno esistenziale.

4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell'ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell'illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.

5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.

6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.

7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il cd. danno tanatologico o da morte immediata.

8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall'art. 2059 c.c. ("Danni non patrimoniali") secondo cui "Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge".

All'epoca dell'emanazione del codice civile l'unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 c.p. 1930.

La giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059 c.c. si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell'animo transeunte.

2.1. L'insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono l'affermazione i seguenti argomenti:

a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall'art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;

b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell'integrità psichica e fisica della persona;

c) l'estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);

d) l'esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all'art. 2059 c.c. e la completano nei termini seguenti.

2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l'art. 2059 c.c. si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c..

L'art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata:

Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).

2.4. L'art. 2059 c.c. è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

L'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

2.5. Si tratta, in primo luogo, dell'art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato ("Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui").

2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2:

mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c. il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).

2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003;

n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell'illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto.

Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell'ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.

2.10. Nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.u. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.u. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

La limitazione alla tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l'art. 2059 c.c. nè l'art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.

Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte cost. n. 87/1979).

Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno (Corte cost. n. 348/2007).

2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

2.13. In tali ipotesi non emergono, nell'ambito della categoria generale "danno non patrimoniale", distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.

E' solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito", e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.

In. tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza. n. 233/2003 della Corte costituzionale.

Le menzionate sentenze, d'altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono.

2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.

La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.

3. Si pone ora la questione se, nell'ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il cd. danno esistenziale.

3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni '90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all'epoca risarcito nell'ambito dell'art. 2043 c.c. in collegamento con l'art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell'integrità psicofisica, e dal cd. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell'art. 2059 c.c. in collegamento all'art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.

Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell'art. 2059 c.c. e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell'ambito dell'art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzataci della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l'espressione "danno esistenziale".

Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona.

Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all'integrità psicofisica.

3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell'art. 2043 c.c. nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l'alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l'insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all'ammissione a risarcimento.

Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull'ingiustizia del danno (per lesione dell'interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c. e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all'epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all'educazione ed all'istruzione, integrante danno-evento.

La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall'accertata lesione di un interesse rilevante.

La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l'agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d'altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.

In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una "voce" del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.

Altre decisioni hanno riconosciuto, nell'ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia.

3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.

3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.

3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso.

3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (cd. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all'esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.

Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del cd. "danno estetico" che del cd. "danno alla vita di relazione"), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.

Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell'illecito che, cagionando ad una persona coniugata l'impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio.

Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.

Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all'interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell'alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell'interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.

La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all'evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell'ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.

Essa si risolve sostanzialmente nell'abrogazione surrettizia dell'art. 2059 c.c. nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento dannoso.

3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. è incentrato sull'assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell'art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l'ordinamento, contraddicendo l'affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.

E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c. come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte cost. n. 87/1979).

3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell'art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Va ricordato che l'effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.u. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).

3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell'ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007) .

Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell'ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell'ambito del rapporto di lavoro.

Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell'ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela dell'integrità fisica, ed agli artt. 1, 2 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginar, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell'ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava "stressata" per effetto dell'istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l'uomo e l'animale, privo, nell'attuale assetto dell'ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle cd. liti bagatellari.

Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio/ è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell'interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l'invocabilità dell'art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell'ambito dell'area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l'offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell'epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest'ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all'art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).

3.11. La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).

Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.u. n. 16265/2002).

3.12. I limiti fissati dall'art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.

La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost. n. 206/2004).

3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata "danno esistenziale", perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale, tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c. che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.

4. Il danno non patrimoniale conseguente all'inadempimento delle obbligazioni, secondo l'opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L'ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all'art. 2059 c.c. dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l'ostacolo, nel caso in cui oltre all'inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva " elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell'esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all'azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell'art. 2059 c.c. in collegamento con l'art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Dalle strettoie dell'art. 2059 c.c. si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell'art. 2043 c.c. (Corte cost. n. 184/1986).

4.1. L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.

Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni.

4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L'individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell'area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).

4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i cd. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l'inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.

In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell'ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).

I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all'autodeterminazione (art. 32, comma 2 e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, pererrore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell'obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.

4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l'allievo e l'istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.u. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell'allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).

4.5. L'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.

E' questo il caso del contratto di lavoro. L'art. 2087 c.c. ("L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro"), inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l'integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l'inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa.

Nell'ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni - conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.

4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell'integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).

Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all'ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all'ipotesi dell'illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

4.7. Nell'ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.

L'art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l'inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

D'altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall'inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all'art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell'art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l'obbligazione è sorta.

Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell'art. 1229 c.c., comma 2. (E'nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).

Varranno le specifiche regole del settore circa l'onere della prova (come precisati da Sez. un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.

Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

E' compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del cd. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sè considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il cd. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell'integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come "voce" del danno biologico, che il cd. danno estetico pacificamente incorpora.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.

Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento". La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.

E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perchè la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l'accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l'indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

B) Ricorso n. 10517/04. 1. Con il primo motivo, denunciando violazione di legge, artt. 1223, 1226, 2043, 2056, 2727 e 2729 c.c. artt. 115 e 116 c.p.c., e motivazione inappagante, illogica e contraddittoria, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, i ricorrenti lamentano il mancato riconoscimento del danno patrimoniale futuro, per la perdita delle contribuzioni economiche che il figlio, deceduto a soli diciassette anni, avrebbe effettuato a favore dei genitori, in ragione della convivenza, destinata a protrarsi fino al raggiungimento della completa autonomia, almeno fino a ventotto anni, dell'incremento delle sue capacità economiche, una volta completato il tirocinio quale apprendista elettricista, e delle modeste capacità reddituali delle famiglia.

1.1. Il motivo è fondato.

La Corte d'appello, dopo aver escluso che G.L., in considerazione dei modesti guadagni come apprendista elettricista, già contribuisse alla gestione economica familiare, ha affermato che "appare impossibile un calcolo presuntivo di danno materiale da proiettarsi in una prospettiva a lunghissimo termine".

La motivazione è insufficiente in quanto non da ragione del mancato utilizzo, per la valutazione della sussistenza del danno patrimoniale futuro, delle presunzioni, sulla base degli elementi forniti dagli attori (attività lavorativa del figlio, apprendista elettricista di anni 17, attestata da busta paga e modello 101/1997, modesto reddito del padre, lavoratore subordinato, per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000, qualità di casalinga della madre, convivenza) cori eventuale successivo ricorso alla liquidazione equitativa per la sua determinazione.

2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di legge, artt. 2, 29 e 30 Cost., artt. 2043 e 2059 c.c. e motivazione insufficiente, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, i ricorrenti lamentano il mancato riconoscimento del danno da rottura del vincolo familiare, costituente, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (sent. n. 8828/2003), figura di danno non patrimoniale distinta rispetto al danno biologico ed al danno morale soggettivo.

2.1. Il motivo non è fondato.

La corte territoriale ha rigettato la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dagli attori per la rottura del vincolo familiare, sul rilievo che si tratta di "voce" già considerata dal giudice di primo grado sotto il profilo del danno biologico iure proprio, e del danno morale sofferto iure proprio per detta perdita, entrambi riconosciuti agli attori, sicchè l'accoglimento della pretesa darebbe luogo ad una duplicazione di liquidazione dello stesso danno. E ciò in particolare con riferimento al danno morale, per la liquidazione del quale il giudice aveva tenuto conto dell'età della vittima, del grado di parentela, delle particolari condizioni della famiglia, della convivenza e dell'intensità del legame affettivo.

La decisione è corretta. Il giudice di primo grado ha ravvisato sia la sussistenza del danno biologico sofferto iure proprio dai genitori, determinato dalla degenerazione in patologia della sofferenza determinata dalla perdita del figlio, per il quale ha utilizzato il sistema di liquidazione tabellare, sia la sussistenza del danno morale, palesemente discostandosi dal ristretto ambito tradizionale del danno morale soggettivo, del patema d'animo transeunte. Ha infatti tenuto conto di tutti gli elementi che, secondo le successive sentenze che ammettono il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale (n. 8827 e n. 8828/2003), devono essere considerati per la liquidazione di tale danno (età della vittima, grado di parentela, particolari condizioni della famiglia, convivenza, intensità del legame affettivo), ed ha proceduto a consistente liquidazione del danno, palesemente esorbitante quella spettante per il mero danno soggettivo da patema d'animo transeunte. La decisione è stata condivisa dalla corte d'appello, che ha rilevato il rischio della duplicazione del risarcimento del medesimo danno, qualora alla liquidazione del danno morale, nell'ampia accezione considerata dal primo giudice, si fosse aggiunta quella del danno da perdita del rapporto parentale.

Decisione esatta, perchè in linea con i principi enunciati da queste Sezioni unite in sede di esame della questione di particolare importanza al punto 4.9. 3. Con il terzo motivo, denunciando violazione di legge, artt. 2 e 32 Cost., artt. 2056 e 2059 c.c. motivazione insufficiente e contraddittoria, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 5 e 3, c.p.c, i ricorrenti lamentano l'insufficiente liquidazione, in Euro 5.000,00, del danno morale soggettivo e del danno biologico psichico terminale sofferto da G.L.. Sostengono che si tratta di mero simulacro di risarcimento per le atroci sofferenze fisiche e per il danno psichico di massima intensità sofferto dalla vittima del sinistro durante l'agonia protrattasi per undici ore (l'incidente si è verificato il (OMISSIS) alle ore 19,40, il decesso è avvenuto il (OMISSIS) alle ore 7.15), in condizioni di lucidità che lo rendevano consapevole dell'imminenza della morte (danno catastrofico), in conseguenza delle gravissime ferite e delle devastanti ustioni riportate, ad essi trasferito per diritto ereditario.

3.1. Il motivo è fondato.

Per accogliere la censura circa il mancato riconoscimento del danno biologico e del danno morale, maturato in capo a G.L., ha osservato la corte d'appello: "dalla cartella clinica...emerge che il G., giunto al reparto rianimazione dell'ospedale civile di (OMISSIS) la sera del (OMISSIS), appariva perfettamente orientato nel tempo e nello spazio, tanto da rispondere alle domande, per cui è fuor di dubbio che la momentanea lucidità gli consentiva di percepire appieno la sua drammatica condizione ed il timore, purtroppo fondato, di versare in fin di vita". Ha quindi ritenuto che "la brevissima sopravvivenza del ragazzo rispetto al sinistro, comparata con la lunghissima aspettativa di vita media di un giovane di diciassette anni" giustifica una determinazione equitativa del risarcimento in Euro 5.000,00.

La corte territoriale non ha preso posizione circa la qualificazione del danno, come danno morale o come danno biologico psichico, ma l'assenza di ogni riferimento all'alterazione della psiche del soggetto, in termini di patologia, depone a favore della prima tesi.

Come già osservato in sede di esame della questione di particolare importanza (punto 4.9), il giudice può riconoscere e liquidare il danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

La sentenza merita tuttavia censura sul punto della quantificazione del danno morale. Tenuto conto della peculiarità della fattispecie (persona di giovane età vittima di gravi ustioni in sinistro stradale; protrazione dell'agonia, in stato di lucidità, per undici ore; sofferenze fisiche, per le lesioni, e morali, per la coscienza della imminente fine della vita, di estrema gravità), la liquidazione è palesemente inadeguata.

4. Il quarto motivo, concernente la mancata rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno morale e l'omessa liquidazione degli interessi compensativi, resta assorbito dall'accoglimento del precedente motivo.

5. Con il quinto motivo, denunciando motivazione illogica ed errata applicazione della legge (art. 1223 c.c.), in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, i ricorrenti lamentano il mancato riconoscimento del rimborso delle spese sostenute per l'assistenza stragiudiziale prestata, nella fase delle iniziali trattative con l'assicurazione, da una agenzia di infortunistica.

5.1. Il motivo è fondato.

La corte d'appello ha negato il risarcimento, osservando che l'esborso, avvenuto al di fuori della lite giudiziaria era produttivo di un danno non direttamente collegabile all'incidente stradale, in quanto frutto di una libera scelta delle parti, che avrebbero potuto, invece, affidare ad un legale l'intera gestione dei loro interessi.

La motivazione è illogica. Anche le spese relative alla assistenza tecnica nella fase stragiudiziale della gestione del sinistro costituiscono danno patrimoniale consequenziale dell'illecito, secondo il principio della regolarità causale (art. 1223 c.c.). Ed è palese che, qualora i danneggiati avessero affidato ad un legale, e non ad una agenzia di infortunistica, la gestione dei loro interessi nella fase stragiudiziale avrebbero dovuto sopportare spese probabilmente non inferiori a quelle effettivamente sostenute.

6. Con il sesto motivo, denunciando falsa applicazione della L. n. 990 del 1969, art. 27 e motivazione illogica e contraddittoria, in riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, i ricorrenti osservano che nella sentenza impugnata si legge, alla pagina 7, che la corte non avrebbe disposto l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri danneggiati nel medesimo sinistro (richiesta dalla Nuova Tirrena) per il motivo che il massimale sarebbe restato comunque incapiente; affermano che tale motivazione è scorretta, e prudenzialmente, per evitare ogni forma di giudicato interno, la impugnano. Sostengono che la corte avrebbe dovuto dichiarare preclusa l'istanza, non avendo la Nuova Tirrena provveduto alla chiamata in giudizio di tutti i danneggiati in primo grado ai sensi dell'art. 269 c.p.c..

6.1. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.

I ricorrenti non impugnano una statuizione della sentenza, in vista di una diversa decisione, ma di questa ammettono la non praticabilità, poichè riconoscono espressamente che lo stato processuale del presente giudizio non consentirebbe alcun allargamento del contraddittorio.

C) Ricorso n. 14781/2004. 1. Con l'unico mezzo, condizionato all'accoglimento del primo motivo del ricorso principale, la ricorrente incidentale lamenta l'omesso esame dell'appello incidentale della Nuova Tirrena, con il quale si faceva rilevare l'inammissibilità della produzione dei documenti sul reddito goduto dal defunto, eseguita in secondo grado.

1.1. Il motivo è fondato.

Sull'appello incidentale della Nuova Tirrena la corte non ha reso alcuna pronuncia.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il primo, terzo e quinto motivo del ricorso principale, rigetta il secondo, assorbito il quarto, dichiara inammissibile il sesto; accoglie il ricorso incidentale;

cassa in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2008
 


VENDITA DI COSA FUTURA

Il contratto riguardante la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell'obbligo del cedente - che sia proprietario anche del terreno su cui l'erigendo fabbricato insisterà - di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l'effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (il suolo, con conseguente effetto traslativo immediato dello stesso) e dell'appalto, a seconda che assuma rilievo centrale, nel sinallagma contrattuale, l'intento delle parti avente ad oggetto il conseguimento della proprietà dell'immobile completato ovvero il trasferimento della proprietà attuale del suolo e l'attività realizzatrice dell'opera da parte del cedente, a proprio rischio e con la propria organizzazione. (Cassa e dichiara giurisdizione, App. Catanzaro, 13 Febbraio 2006)

 

 

 

 

  
Cass. civ. Sez. Unite Sent., 12-05-2008, n. 11656

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società Hermes s.r.l. con citazione notificata il 17.4.2003, conveniva davanti al Tribunale di Catanzaro la regione Calabria per sentirla condannare al pagamento della somma di Euro 21.179.800,00, oltre accessori, a titolo di responsabilità precontrattuale, o, in subordine, al pagamento della somma di Euro 6.507.300,00, oltre accessori, a titolo di indebito arricchimento per l'acquisizione di elaborati contrattuali.

Assumeva l'attrice che era proprietaria di un terreno in località (OMISSIS), su cui aveva diritto, in forza di convenzione con il Comune, a realizzare un complesso edilizio composto da 418 alloggi; che la regione Calabria con Delib. Giunta 16 ottobre 2001, n. 873, pubblicava sulla G.U. un avviso al fine di esperire una ricerca di mercato finalizzata all'acquisizione in locazione con eventuale opzione di acquisto, ovvero all'acquisto anche per cosa futura e/o mediante leasing di un complesso immobiliare esistente o da realizzare in (OMISSIS) da destinare agli uffici regionali; che l'offerta presentata da essa Hermes per la costruzione di un complesso immobiliare con tali caratteristiche veniva giudicata come la più idonea da apposita commissione; che, con Delib. 4 novembre 2002, la Giunta regionale approvava la stipulazione di un contratto di compravendita del complesso immobiliare da costruire, in base ad allegato schema contrattuale, al quale l'attrice dichiarava di aderire; che con Delib. 17 dicembre 2002, n. 1238, la giunta regionale ritirava la precedente deliberazione e con Delib. 27 dicembre 2002, n. 1239, manifestava la propria intenzione di procedere all'acquisto dell'area ed - in mancanza all'espropriazione, realizzando successivamente il complesso immobiliare con la procedura di finanza di progetto di cui alla L. n. 109 del 1994, art. 37 bis; che essa attrice, riservandosi ogni azione per i danni subiti dalle determinazioni regionali, cedeva l'area con atto notarile, in vista della possibilità di esperire una procedura di finanza di progetto nel termine del 28.2.2003; che, essendo inutilmente scaduto tale termine, si vedeva costretta ad adire il tribunale per il risarcimento del danno da responsabilità contrattuale provocato della regione, ex art. 1337 c.c., per avere quest'ultima ingiustificatamente rifiutato di stipulare il contratto di vendita di cosa futura, pur avendo ingenerato in essa attrice un affidamento che l'aveva indotta a sopportare ingenti spese di progettazione ed a rinunziare alla realizzazione del complesso edilizio residenziale, ed in via gradata per il danno da indebito arricchimento per aver la regione utilizzato gli elaborati progettuali e di studio da essa attrice predisposti.

Si costituiva la Regione Calabria, che resisteva alla domanda, eccependo, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione.

Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza n. 46/2005, dichiarava il difetto di giurisdizione dell'AGO in favore del giudice amministrativo.

Su appello della s.r.l. Kermes, la corte di appello di Catanzaro, con sentenza n. 46 del 13.2.2006, rigettava l'appello.

Riteneva la corte di merito che, nonostante il contrario assunto dell'appellante, la sua domanda risarcitoria si riconnetteva all'emanazione di atti amministrativi (delibere del 17 e del 27.12.2002), con cui veniva ritirata in autotutela per vizi di legittimità (violazione di normativa comunitaria e di contabilità pubblica) la Delib. novembre 2002 ed erano disposti l'acquisizione dell'area ed il project financing; che nella fattispecie la regione aveva dato corso ad una "procedura di affidamento di lavori, servizi o forniture"; che la regione era tenuta nella scelta del contraente all'applicazione della normativa comunitaria o al rispetto del procedimento di evidenza pubblica; che la regione aveva indetto una pubblica gara finalizzata all'acquisto di immobili da destinare ad uffici regionali; che le offerte erano state valutate da una commissione; che nella specie era, quindi, applicabile la L. n. 205 del 2000, art. 6 che conferisce al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva nelle ipotesi di affidamento di lavori; che nella fattispecie; trattandosi di esecuzione di opera rispondente ad esigenze della P.A. aggiudicatrice, doveva ritenersi che trattavasi di appalto pubblico di lavoro; che nella fattispecie il contratto allegato alla Delib. 4 novembre 2002, n. 119 aveva solo il nomen iuris di vendita di cosa futura, trattandosi invece di appalto di opera pubblica, poichè era previsto un acconto in corso d'opera, un termine di ultimazione dei lavori e che gli impianti tecnici fossero eseguiti a regola d'arte.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Hermes s.r.l..

Resiste con controricorso la regione Calabria.

Entrambe le parti hanno presentato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi generali in materia di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e delle norme di cui agli artt. 2043 e 1337 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3.

Assume la ricorrente che nel caso di specie non viene in contestazione la legittimità di atti amministrativi, ma soltanto che, avendo la regione agito iure privatorum, a seguito di un avviso di ricerca di mercato, abbia poi omesso di dar corso alla stipulazione del contratto di compravendita di cosa futura, nonostante l'affidamento ingenerato in ordine alla conclusione di tale contratto, con violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nell'ambito delle trattative contrattuali, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, in difetto di ipotesi di affidamento dei lavori, rientrante nella L. n. 205 del 2000, art. 6. 2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, e dell'art. 11 della direttiva 93/37 CEE, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.

Ritiene la ricorrente che erroneamente nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che si vertesse in ipotesi di affidamento di un appalto pubblico di lavori, le cui controversie rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, poichè la regione non ha predisposto alcun bando di gara, secondo i requisiti e modalità di cui all'art. 11 direttiva 93/37 CEE, ma solo un "avviso in funzione di ricerca di mercato per una locazione con successiva opzione di riscatto ovvero per un acquisto di cose future o per una locazione finanziaria"; che l'avviso non era impegnativo per l'Ente, come espressamente indicato; che sono irrilevanti gli elementi valorizzati dalla sentenza, secondo cui vi era un'apposta commissione di valutazione delle offerte (in quanto tutta la procedura aveva carattere atipico ed informale) e vi furono successivi atti deliberativi della regione (rientrando gli stessi tra gli atti interni di formazione della volontà contrattuale).

3. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 205 del 2000, art. 6, degli artt. 1362, 1363 e 1472 c.c., della L. n. 104 del 1994, art. 2, comma 1, e dell'art. 1, comma 1, lett. a) direttiva 93/37 CEE, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.

Assume la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che nella fattispecie il contratto che le parti volevano stipulare era un contratto di appalto, mentre in effetti si trattava di contratto di vendita di cosa futura, tenuto conto che le aree su cui doveva essere realizzata l'opera erano di proprietà della Hermes; che era assente l'elemento del facere, caratterizzante il contratto di appalto, mentre nella fattispecie la prestazione consisteva in un dare (la cosa futura e l'area su cui insisteva).

Secondo la ricorrente la corte di merito avrebbe erroneamente attribuito rilevanza ad elementi non incompatibili con il contratto di vendita di cosa futura, e cioè alla previsione di un acconto, del termine di ultimazione dei lavori e dell'obbligo che gli impianti fossero eseguiti a regola d'arte.

Assume la ricorrente che dal contratto, e segnatamente dagli artt. 2, 3 e 4, emerge con chiarezza che si trattava di contratto di acquisto di cosa futura, con conseguente esclusione dell'applicabilità della L. n. 205 del 2000, art. 6 e della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

4.1. I tre motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Con la domanda principale l'attrice ha richiesto la condanna della regione al risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale a norma dell'art. 1337 c.c..

Con la domanda subordinata l'attrice ha richiesto la condanna della convenuta all'indennizzo per arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c..

Il giudice di primo grado ha affermato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Il giudice di secondo grado ha rigettato l'appello, pronunziandosi esclusivamente sulla giurisdizione in merito alla domanda risarcitoria per responsabilità precontrattuale.

Nessuna pronunzia la corte territoriale ha emesso in merito all'affermata giurisdizione amministrativa per l'azione di arricchimento senza causa ed il punto non è stato oggetto di ricorso per cassazione.

4.2. L'affermazione della giurisdizione è stata fondata dal giudice di appello su tre rilievi:

a) la pretesa risarcitoria si riconnetteva all'emanazione di atti amministrativi, cioè alle delibere n. 1238 e 1239 del 2002, di ritiro della precedente deliberazione di approvazione dello schema contrattuale di vendita di cosa futura;

b) nella fattispecie era applicabile la L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, trattandosi di affidamento di lavori; e) il contratto, relativamente al quale era ipotizzata la responsabilità precontrattuale, costituiva un contratto di appalto e non di vendita di cosa futura.

Va, anzitutto, premesso che con la Delib. n. 873 del 2001 relativa alla ricerca di mercato per l'acquisizione(sia pure attraverso varie formule) di un complesso edilizio e con quella del 4.11.2002, n. 1010, di approvazione della stipulazione del contratto di compravendita secondo lo schema contrattuale allegato, l'amministrazione effettuava la scelta di operare iure privatorum, secondo valutazioni di sua competenza che si inquadravano nei poteri conferitile dalla L. n. 241 del 1990, art. 1.

Avendo ad oggetto tali delibere la ricerca e poi l'acquisizione di un complesso edilizio sul libero mercato si è fuori dalla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 33 come modificato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7.

Quanto al primo punto, su cui si basa la statuizione della sentenza impugnata, va osservato, ai fini della giurisdizione, che la controversia non investe la legittimità di atti amministrativi posti in essere dalla regione:

la ricorrente infatti non lamenta che alcuna delle delibere indicate sia illegittima ovvero che non sia stata data esecuzione a quelle delibere.

Le deliberazioni sono riportate come momento formativo della volontà dell'ente, la quale, per effetto di tali delibere, prima si era formata nel senso di addivenire alla stipulazione di un contratto di acquisto di cosa futura e successivamente nel senso contrario per l'acquisto (o espropriazione) della sola area e per la successiva realizzazione dell'opera con la procedura della finanza di progetto.

La ricorrente appunto lamenta che in un primo momento l'ente aveva trattato per un contratto di acquisto di cosa futura ed in questo senso aveva creato un affidamento nella conclusione di tale contratto e che in un momento successivo aveva interrotto la fase di conclusione, a suo parere ingiustificatamente.

La domanda, quindi, si fonda, come previsto dal paradigma normativo di cui all'art. 1337 c.c., sul comportamento tenuto nei confronti di essa attrice dalla contraente regione nella fase formativa del contratto, per quanto in esecuzione di dette delibere.

4.3. Osserva questa Corte che il punto relativo al "se ed in quali termini tali delibere potessero legittimamente realizzare l'affidamento assunto dell'attrice e giustificare il comportamento della regione di interruzione della contrattazione" è questione che può attenere al merito della controversia sulla pretesa responsabilità precontrattuale, ma non alla giurisdizione.

La domanda risarcitoria proposta dall'attuale appellante prescinde dalla demolizione giuridica di determinazioni amministrative, in quanto ciò che si controverte attiene al danno (asseritamente) subito dalla Società attrice in base ad un contegno posto dall'Amministrazione in violazione delle regole che tutelano il legittimo affidamento delle parti in una trattativa precontrattuale.

5.1. Si pone quindi la questione della responsabilità precontrattuale della P.A..

La giurisprudenza solo con la sentenza n. 1675/1961 delle SS. UU. della Cassazione riconobbe la configurabilità della responsabilità precontrattuale in capo alla Pubblica amministrazione, affermando che compito del giudice di merito non è quello di valutare se il soggetto amministrativo sia stato un corretto amministratore, bensì se sia stato un corretto contraente.

Il limite fondamentale di questa prima - pur importante - pronuncia fu quello di ritenere sussistente la culpa in contrahendo della Pubblica amministrazione in caso di recesso senza giustificato motivo da una trattativa privata (c.d. pura), cioè solo nei casi in cui la Pubblica amministrazione si spoglia dei propri poteri pubblicistici ed opera come un qualunque altro soggetto (con la conseguenza che nelle ipotesi successivamente sempre più ricorrenti - a seguito delle impostazioni di matrice comunitaria - di trattativa privata preceduta da gara informale non potevano applicarsi i principi civilistici della culpa in contrahendo).

Per le procedure di gara (aperte o ristrette), invece, la giurisprudenza continuava ad operare un distinguo: in particolare, se l'illecito era avvenuto prima o dopo l'aggiudicazione. La giurisprudenza riteneva, infatti, che la responsabilità poteva essere affermata solo dopo l'aggiudicazione di una gara.

Questa Corte, nel negare la qualità di contraente al mero partecipante alla gara, anteriormente all'aggiudicazione (donde l'affermazione della normale non applicabilità, in tale fase, della responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 1337 c.c.) ha tuttavia ammesso che, una volta intervenuta l'aggiudicazione, l'aggiudicatario dovesse ormai ritenersi parte a tutti gli effetti (Cass., SS.UU. civ., 26 maggio 1997 n. 4673).

Già prima delle innovazioni del 1998-2000 la giurisprudenza era, dunque, approdata alla conclusione della possibilità dell'applicazione delle regole in tema di responsabilità precontrattuale alla Pubblica amministrazione committente, ancorchè solo dopo l'aggiudicazione, nella fase intercorrente tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto.

Il dibattito sull'ammissibilità della responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione nell'ambito dell'attività negoziale si è arricchito a seguito delle note riforme del 1998-2000.

Un'ulteriore spinta innovativa è derivata dalla nota pronuncia n. 500/1999 di queste Sezioni Unite sulla risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi.

5.2. Si ammette oggi pacificamente la configurabilità di una responsabilità precontrattuale a carico anche della P.A., poichè anche a suo carico grava l'obbligo giuridico sancito dall'art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative, perchè con l'instaurarsi delle medesime sorge tra le parti un rapporto di affidamento che l'ordinamento ritiene meritevole di tutela.

Pertanto, se durante tale fase formativa del negozio una parte viola il dovere di lealtà e correttezza ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l'affidamento della controparte (anche colposamente, in quanto non occorre un particolare comportamento oggettivo di malafede, nè la prova dell'intenzione di arrecare pregiudizio all'altro contraente) in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale.

Invero - pur trascurando in questa primo approccio, l'indagine circa la possibilità di qualificare il rapporto de quo in termini di appalto pubblico di lavori, servizi o forniture - è assorbente il rilievo che la pretesa risarcitoria va posta nel quadro dell'art. 2043 c.c. (al quale il precetto dell'art. 1337 c.c. si collega).

La giurisdizione, quindi, ove si dovesse riscontrare che manchi una norma attributiva al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva nella materia in esame, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario senza che assuma rilievo la qualificazione della situazione giuridica dedotta in giudizio come diritto soggettivo o interesse legittimo, in forza dei principi affermati da queste S.U. con sentenza 22 luglio 1999, n. 500 (Cass. S.U. 19.11.2002, n. 16319;

Cass. S.U. 22.6.2003; Case. 16.7.2001, n. 9645).

6.1. Nella fattispecie la domanda è successiva alla data di entrata in vigore della L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, (art. successivamente abrogato dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 256 ma riprodotto in forma pressochè analoga, nel D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 244 - Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture).

Tale norma statuisce che: "Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale".

Ne consegue che, per effetto di tale norma, è stata configurata una giurisdizione esclusiva in favore del giudice amministrativo anche per l'azione di risarcimento per responsabilità precontrattuale nelle procedure di affidamento di contratti di appalto di lavori, servizi o forniture, da parte di soggetti tenuti nella scelta del contraente all'applicazione della normativa comunitaria o al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica (cfr. Cass. S.U. n. 16319/2002;

Cass. S.U. 18/10/2005, n. 20116; Cons. Stato sez. 5^, n. 7194/2006).

6.2. Tale giurisdizione esclusiva per l'azione di responsabilità precontrattuale non è invece ravvisabile in tema di contratto di compravendita di immobile, in mancanza di una norma specifica.

Nessuna delle direttive comunitarie vigenti al momento dei fatti posti a base della domanda (92/50 in materia di appalti di servizi, 93/36 in materia di appalti di forniture, 93/37 in materia di appalti di lavori), assoggettava alla propria disciplina la compravendita di edifici esistenti.

Sulla stessa linea si è mossa la normativa nazionale di recepimento.

Si consideri, ad esempio, che il D.Lgs. n. 157 del 1995, art. 5, lett. a), esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione i contratti aventi ad oggetto l'acquisizione o la locazione, indipendentemente dalle modalità finanziarie, di terreni o edifici esistenti.

7.1. Il problema che si pone è quindi quello di individuare se nella fattispecie il, contratto in fieri tra le parti, di cui si lamenta l'interruzione delle trattative, costituisca un contratto di compravendita di cosa futura (nel qual caso sussisterebbe la giurisdizione del giudice ordinario) o un contratto di appalto di lavori pubblici (nel qual caso sussisterebbe la giurisdizione esclusiva del G.A.).

Nel nostro ordinamento non vige il sistema del nec ultra vires (che caratterizza invece l'attività delle persone giuridiche di diritto pubblico nel sistema anglosassone) e, pertanto, sia le persone giuridiche pubbliche che private hanno la medesima capacità giuridica, per cui la p.a. può porre in essere contratti di diritto privato in assenza di specifici divieti.

A tal fine va osservato che l'acquisto di cosa futura è un istituto che non solo opera in deroga alla normativa generale in materia di appalti pubblici, ma, addirittura, si pone in alternativa all'appalto di opera pubblica, che resta il sistema ordinario per l'acquisizione di opere di pertinenza pubblica.

Sicchè, l'esperibilità della vendita di cosa futura da parte della pubblica amministrazione, pur essendo ammissibile in astratto, in concreto è condizionata dalla ricorrenza di situazioni eccezionalissime e dalla necessità - dettata dalla finalità di evitare intenti elusivi del principio tendenziale e generale del procedimento d'appalto - che l'amministrazione valuti preventivamente la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie di realizzazione delle opere pubbliche (Cons. Stato 1.3.2005, n. 816).

Infatti il Cons. Stato, (Ad. Gen.), 17/02/2000, n. 2, ha ritenuto che l'istituto della compravendita di cosa futura non è stato espunto dall'ordinamento con il sopravvenire della più recente legislazione sui lavori pubblici, salvo verificare se, in concreto, l'amministrazione abbia stipulato un contratto di vendita o di appalto.

E' quindi ammissibile il ricorso alla compravendita di cosa futura, ma solo nei ristrettissimi limiti in cui l'opera da acquisire costituisca, secondo un ampiamente motivato e documentato apprezzamento dell'amministrazione, un bene infungibile, con riguardo alle sue caratteristiche strutturali e topografiche, ovvero un "unicum" non acquisibile in altri modi, ovvero a prezzi, condizioni e tempi inaccettabili per il più solerte perseguimento dell'interesse pubblico.

Ne consegue la necessità che l'amministrazione valuti preventivamente la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie di realizzazione delle opere pubbliche, e ove ne verifichi la non praticabilità in relazione a specialissime, motivate e documentate esigenze di celerità, funzionalità ed economicità, potrà scegliere di acquisire l'immobile secondo il meccanismo della compravendita.

7.2. Occorre, quindi, esaminare se nella fattispecie il contratto in fieri avesse ad oggetto un appalto o una vendita di cosa futura.

A tal fine va ribadito che di nessun rilievo è, ai fini della giurisdizione, accertare se sussistevano le condizioni per la Regione per poter utilizzare il contratto di compravendita di cosa futura, per poter procedere in autotutela a "ritirare" la delibera che aveva dato inizio ai contatti, e se la controparte avesse conoscenza di eventuali illegittimità procedimentali e quale rilievo ciò avesse nella fattispecie.

In questa sede relativa all'accertamento della pretesa violazione dei principi sulla giurisdizione, occorre solo acclarare se il contratto in corso di formazione in questione integrasse un contratto di appalto di lavori o di compravendita di cosa futura, poichè solo questo determina l'applicabilità o meno della giurisdizione esclusiva del GA, anche per la responsabilità precontrattuale.

7.3. Comunemente si sostiene che la vendita ha per oggetto un dare, mentre l'appalto ha per oggetto un facere.

La prima è diretta ad un trasferimento, mentre il secondo è inteso in primis alla produzione di un opus, mediante un'attività elaboratrice.

L'uno presuppone l'esistenza attuale della cosa;

l'altro l'inesistenza ed è posto in essere per produrla.

Il problema si complica allorchè si tratta di vendita di cosa futura (art. 1472 c.c.) e cioè di bene non ancora esistente, segnatamente allorchè si tratti un prodotto d'opera non ancora realizzato e per l'esistenza del quale occorre l'attività strumentale positiva dell'alienante.

Anche in relazione a questo tipo di vendita si ritiene dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza che si versi in ipotesi di contratto ab inizio perfetto, ricorrendo in esso tutti gli elementi essenziali del contratto, ma ad effetti obbligatori, poichè il momento traslativo sussisterà solo allorchè la cosa sia venuta ad esistenza: l'esigenza di tutelare il compratore contro il rischio del perimento dell'opera che si trovi ancora nella sfera di controllo dell'alienante induce a ritenere che l'opera debba ritenersi esistente solo al momento del suo completamento (Cass. 18.5.2001 n. 6851; Cass. n. 8118/1991; Cass. n. 3854/1989).

7.4. I criteri di distinzione proposti sono sostanzialmente due. Un primo criterio di distinzione, che può definirsi obbiettivo, propone di distinguere l'appalto dalla compravendita di cosa futura in base alla prevalenza quantitativa dell'elemento lavoro sull'elemento materia (il principio è applicato soprattutto in materia tributaria, essendo il criterio seguito dal D.P.R. n. 633 del 1972, Cass. sez. 5^, n. 9320/2006).

Si è validamente obbiettato, allorchè tale criterio è stato trasferito fuori dall'area tributaria, che non è la prevalenza quantitativa del lavoro sulla materia che ha valore decisivo, ma il modo come il lavoro è considerato dalle parti.

Il secondo criterio di distinzione tra i due contratti è quello subiettivo, alla stregua del quale dovrà vedersi in che modo le parti hanno considerato l'opera, se cioè in sè stessa o in quanto prodotto necessario di un'attività e quindi se la volontà delle parti aveva ad oggetto un dare o un facere.

Il criterio subiettivo è quello più seguito dalla giurisprudenza (Cass. 20.10.1997 n. 10256; Cass. 19.11.2002, n. 16319; Cass. 2.8.2002, n. 11602).

Per volontà delle parti deve intendersi non l'intenzione soggettiva, cioè l'opinione che esse abbiano avuto della natura del rapporto, ma l'intento empirico tipico in cui si inquadra la volontà che le muove.

E' stato già rilevato che il privato non è padrone delle conseguenze giuridiche dei negozi che compie, le quali si producono vi legis e non vi voluntatis.

La cosiddetta libertà contrattuale dei privati comincia e termina con la creazione dell'elemento di fatto del negozio e cioè con la manifestazione di un determinato intento empirico.

L'effetto giuridico è indipendente dalla rappresentazione che se ne faccia l'agente, il quale nessuna diretta influenza potrà esercitare su di esso. Quando perciò si propone di far richiamo alla volontà delle parti per qualificare il negozio, per volontà delle parti si deve intendere il dato dell'intento empirico che le parti hanno dimostrato di voler conseguire: se tale intento empirico coincide con quello della vendita, nel senso che il conseguimento della cosa costituisce la vera ed unica finalità del negozio ed il lavoro sia solo il mezzo per produrla, si ha vendita di cosa futura; se coincide con quello proprio dell'appalto, nel senso che l'attività realizzatrice della cosa sia la vera finalità del negozio, si ha appalto.

7.5. In giurisprudenza è stato più volte deciso che il contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di un'area edificabile in cambio di un fabbricato o di alcune sue parti da costruire sulla stessa superficie a cura e con i mezzi del cessionario, può integrare sia un contratto di permuta di un bene esistente con un bene futuro, sia un contratto misto, costituito con gli elementi della vendita e dell'appalto.

Si configura il primo contratto se il sinallagma negoziale sia consistito nel trasferimento reciproco della proprietà attuale con la cosa futura (ipotesi la quale si verifica anche se si sia previsto il pagamento di un conguaglio in denaro, non incidendo tale clausola sulla causa tipica del negozio di permuta) e l'obbligo di erigere l'edificio sia restato su un piano accessorio e strumentale, mentre si ravvisa l'altro contratto, qualora la costruzione del fabbricato sia stata al centro della volontà delle parti e l'alienazione dell'area abbia costituito soltanto il mezzo per conseguire l'obiettivo primario (Cass. 09/11/2005, n. 21773; Cass. 12/04/2001, n. 5494; Cass. 24/01/1992, n. 811; Cass. n. 13 del 1990, Cass. n. 5147 del 1987).

7.6. Ritengono queste S.U. di dover aderire a tale orientamento consolidato, anche in tema di differenza tra vendita di cosa futura ed appalto.

Pertanto il contratto avente ad oggetto la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell'obbligo del cedente - che sia proprietario anche del terreno su cui l'erigendo fabbricato insisterà - di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l'effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (il suolo, con conseguente effetto traslativo immediato dello stesso) e dell'appalto: e ciò a seconda che nel sinallagma contrattuale, assuma un rilievo centrale il conseguimento della proprietà dell'immobile completato ovvero tale ruolo centrale sia costituito dal trasferimento della proprietà attuale (del suolo) e dall'attività realizzatrice dell'opera da parte del cedente.

Si avrà quindi vendita di cosa futura quando l'intento delle parti abbia ad oggetto il trasferimento della cosa futura e consideri l'attività costruttiva nella mera funzione strumentale e per contro si avrà vendita con effetti reali del suolo ed appalto della costruzione, quando l'attività costruttiva, che il cedente assume a proprio rischio con la propria organizzazione, viene considerata come oggetto della prestazione di fare.

In quest'ultima ipotesi si verserà in ipotesi di contratto misto (di vendita e di appalto),la cui disciplina giuridica va individuata, in base alla teoria. dell'assorbimento, che privilegia la disciplina dell'elemento in concreto prevalente, in quella risultante dalle norme del contratto atipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (cosiddetta teoria dell'assorbimento o della prevalenza), senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l'ampiezza del vincolo contrattuale, elementi ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente (Cass. 24/07/2000, n. 9662; Cass. 08/02/2006, n. 2642).

7.7. Viene poi costantemente affermato che l'indagine sul reale contenuto delle volontà espresse nella convenzione negoziale "de qua", risolvendosi in un apprezzamento di fatto, è riservata al giudice del merito ed è conseguentemente incensurabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione.

Sennonchè nella fattispecie il ricorso è proposto soprattutto sotto il profilo di violazione delle norme in tema di giurisdizione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 1.

In proposito vige, quindi, il diverso principio secondo cui questa Corte, istituzionalmente giudice di legittimità, per quanto riguarda le questioni di giurisdizione è anche giudice del fatto e, come tale, ha il potere di apprezzare direttamente i "fatti", anche non processuali,, e di trarre conseguenze autonome e indipendenti, non solo dalle deduzioni delle parti, ma anche dal giudice del merito (Cass. S.U., 22/07/2002, n. 10696, Cass. S.U. 10/08/2000, n. 560;

Cass, S.U. 19 febbraio 1999, n. 79; Cass. S.U. 9 ottobre 1984, n. 5028; Cass. S.U. 19 novembre 1979, n. 6025).

I "fatti" sulla base dei quali la giurisdizione deve essere determinata sono, anzitutto, quelli allegati alla domanda (arg. ex art. 386 c.p.c.), ma è evidente che se un'attività istruttoria è stata, almeno in parte, espletata, la Corte deve tener conto delle sue risultanze e procedere alla loro valutazione.

8.1. Passando quindi ad esaminare i fatti, il punto di partenza è costituito dalla "ricerca di mercato" deliberata dalla giunta regionale con Delib. 16 ottobre 2001, n. 873, "finalizzata all'acquisizione in locazione con opzione di acquisto....... ovvero all'acquisto anche per cosa futura e/o mediante locazione finanziaria esistente, in corso di realizzazione o da realizzare ubicato nella città di (OMISSIS)....".

Contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata nella fattispecie non si trattava di "un bando di gara per la realizzazione dell'appalto del complesso immobiliare", ma semplicemente di un avviso con funzione di consentire una ricerca di mercato al fine di acquisire un complesso immobiliare per gli uffici regionali.

Sulla scorta della più attenta giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. 6^, 29 marzo 2001, n. 1881), deve essere rimarcata la differenza fra sondaggio esplorativo e gara ufficiosa istituti entrambi utilizzabili nella trattativa privata: il primo tende solo ad acquisire una conoscenza dell'assetto del mercato e dunque dell'esistenza di imprese potenziali contraenti e del tipo di condizioni contrattuali che sono disposte a praticare; il secondo, oltre ad essere strumento di conoscenza implica una valutazione comparativa delle offerte, valutazione che è insita nel concetto stesso di gara e che pone l'obbligo per l'amministrazione di rispettare le prescrizioni assunte in sede di autovincolo, in ossequio ai canoni di trasparenza, buon andamento ed imparzialità.

Ma, al di fuori del rispetto di tale autovincolo, la gara informale non snatura le linee fondamentali ed i caratteri tipici della trattativa privata, trasformandosi in una procedura meccanica di gara formale ad evidenza pubblica.

Già dal modo di "porsi sul mercato" con tale "ricerca di mercato" emerge che la regione mirava ad acquisire il godimento di un immobile (come diritto personale o come contenuto del diritto di proprietà) tramite preventiva locazione, anche finanziaria, con diritto di riscatto ovvero con acquisto di cosa futura, e non l'attività realizzatrice di un appaltatore.

8.2. Infondato è l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui con lo schema della vendita di cosa futura sarebbe incompatibile la previsione di acconti.

Incompatibile con la vendita di cosa futura non è l'acconto di per sè, quanto la previsione di acconti in corso d'opera in relazione a stati di avanzamento dei lavori, propri, invece dell'appalto.

Mentre nell'appalto l'acconto si giustifica in virtù del SAL e dunque di una parziale esecuzione dell'oggetto del contratto, nella vendita di cosa futura l'adempimento dell'alienante si configura solo con il completamento del bene, per cui antecedentemente non è previsto un pagamento per un "parziale" adempimento.

Sennonchè nello schema di contratto allegato alla Delib. n. 119 del 2002 il pagamento di 14 milioni di Euro è previsto non come "acconto d'opera", ma come anticipazione di pagamento di parte del prezzo finale.

8.3. Egualmente infondato è l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui la previsione di un termine di ultimazione dei lavori sarebbe tipica dell'appalto e normalmente estranea all'ipotizzato contratto di vendita.

Infatti, allorchè la vendita di cosa futura preveda che la cosa venga ad esistenza attraverso il comportamento dell'alienante e che, quindi, sia pure quale elemento accessorio, sia prevista un'attività di questi, è perfettamente conciliabile con tale schema contrattuale la fissazione di un termine entro cui detta cosa futura debba venire ad esistenza.

8.4. Neppure è elemento, che milita necessariamente per la qualificazione dello schema contrattuale come appalto, l'obbligo assunto dall'attrice di realizzare gli impianti a perfetta regola d'arte, in quanto anche nella vendita di cosa futura devono essere preventivamente individuate le caratteristiche tecniche dell'opera da realizzare, analogamente quanto alla costituzione di una commissione di esperti per verificare la "regolare esecuzione del contratto", in quanto l'intervento di detta commissione, non è stato previsto come controllo in corso d'opera, quale quello che effettua il direttore dei lavori della stazione appaltante o l'ingegnere capo, ma dopo la realizzazione e consegna dell'opera.

Non potendo tale commissione incidere nel momento del facere, il ruolo ad essa spettante è solo quello di verifica dell'opera compiuta, che è perfettamente conciliabile con la vendita di cosa futura.

Inoltre nella fattispecie si tratta di commissione paritetica, composta da rappresentati di entrambi le parti, mentre tali non sono i controlli svolti in corso di contratto di appalto.

Ritenuti, quindi, insussistenti gli elementi posti dalla sentenza impugnata a base della qualificazione del contratto in questione quale contratto di appalto, vanno ora esaminati, quali sono gli elementi che fanno qualificare detto contratto come contratto di vendita di cosa futura.

8.5. E' vero che il nomen iuris dato dalle parti allo schema contrattuale in questione di per sè non è rilevante e neppure lo è l'art. 4 nella parte in cui dichiara che "le parti convengono espressamente che il presente contratto si configura come acquisto di cosa futura, anche agli effetti dell'art. 1472 c.c.", per le ragioni già dette, secondo cui ciò che conta non è l'intenzione soggettiva delle parti sulle conseguenze giuridiche delle volontà espresse, ma l'intento empirico di tale manifestazioni di volontà.

In questo senso sono quindi rilevanti l'art. 2, in cui la Hermes dichiara di trasferire la piena proprietà del complesso immobiliare da realizzare in (OMISSIS) e la Regione Calabria dichiara di acquistare tale bene; l'art. 3, in cui le parti dichiarano che oggetto del trasferimento sono l'appezzamento del terreno, i manufatti e le opere da realizzare; l'art. 4, nella parte in cui le parti specificano che la proprietà dei beni sarà trasferita alla regione solo nel momento in cui il complesso viene ad esistenza.

8.6. Quanto all'interpretazione delle clausole contrattuali va, anzitutto, rilevato che l'art. 1362 c.c., allorchè nel comma 1 prescrive all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l'elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, rilevi con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi è divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile; soltanto quando le espressioni letterali del contratto non sono chiare, precise ed univoche, è consentito al giudice ricorrere agli altri elementi interpretativi indicati dagli artt. 1362 e ss. c.c., che hanno carattere sussidiario (Cass. 22/02/2007, n. 4176; Cass. 1.4.1993, n. 3936).

Pertanto, nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento dell'operazione interpretativa, è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino un'intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la propria soggettiva opinione all'effettiva volontà dei contraenti (Cass. 22/12/2005, n. 28479; 03/12/2004, n. 22781; Cass. 22.4.1995, n. 4563).

8.7. Nella fattispecie, come risulta sia dall'avviso di ricerca di mercato che dallo schema del contratto, l'interesse dell'amministrazione non era tanto quello di ottenere il suolo per una successiva trasformazione del medesimo, quanto l'acquisizione di un edificio già realizzato rispetto al quale sia l'acquisto del suolo che il lavoro del costruttore appaiono come elementi indispensabili, ma comunque accessori, rispetto all'oggetto effettivo del contratto.

Peraltro, come si è visto, a fronte della ritenuta natura del contratto come compravendita di cosa futura, non avrebbe mai potuto sussistere solo un contratto di appalto, in quanto il terreno era della stessa Hermes (ipotetica appaltatrice) ed il contratto in questione sarebbe stato un contratto di appalto di opera pubblica su terreno di proprietà dello stesso appaltatore, ma un contratto misto di vendita con effetti reali di bene esistente (il terreno) e di contestuale appalto per la realizzazione dell'edificio.

Sennonchè, come detto, dall'art. 2 del contratto emerge che l'intento delle parti non era quello di trasferire la sola proprietà del terreno ma anche quella dell'intero complesso da realizzare e che lo stesso trasferimento della proprietà del terreno sarebbe avvenuto in una alla proprietà del complesso immobiliare, allorchè esso sarebbe stato ultimato.

8.8. In merito al passaggio di proprietà dell'opera nell'appalto di costruzione di immobili, la dottrina, che se ne è occupata, ritiene condivisibilmente che, se il suolo è di proprietà del committente, l'opera nasce di sua proprietà per accessione; se invece il terreno è dell'appaltatore (o perchè già suo o perchè l'abbia acquistato ai fini dell'esecuzione del contratto di appalto, rivestendo in questo acquisto la qualità di mandatario del soggetto committente l'appalto) e non sia stato trasferito al committente, l'appaltatore che ha fornito anche i materiali ed il lavoro, è acquirente originario della proprietà dell'opera, che passa nella proprietà del committente solo con l'accettazione dell'opera, che deve essere data per iscritto, trattandosi di immobili.

Nella fattispecie - invece - il trasferimento della proprietà era previsto nel contratto per effetto della sola venuta ad esistenza ed ultimazione del complesso e non per effetto dell'accettazione, il che è conforme alla disciplina della vendita di cosa futura.

9.1. Ne consegue che, non versandosi in ipotesi di procedura di affidamento di appalto di lavori, ma di trattative relative ad un contratto di compravendita di cosa futura, per la proposta azione di responsabilità precontrattuale nei confronti della regione convenuta, non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (per le controversie relative alle procedure di affidamento di lavori da parte delle P.A., ai sensi della L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 6), ma la giurisdizione del giudice ordinario.

Infatti, esclusa l'applicabilità di tale ultima norma, la giurisdizione va affermata sulla base dei criteri di riparto ancorati alla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, e perciò in funzione della natura giuridica delle situazioni soggettive dedotte in giudizio.

Tale natura attiene ad una pretesa il cui soddisfacimento non postula la demolizione di alcun atto amministrativo, giacchè allega un illecito extracontrattuale a carico della P.A. e non contesta la procedura relativa alla individuazione del contraente (Cass. S.U. n. 9645 del 2001, e 10160 del 2003; Cass. S.U. 03/07/2006, n.15199;

Cass. S.U. 6/02/2006, n. 2450).

9.2. Va pertanto accolto il ricorso; va cassata l'impugnata sentenza e dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, con conseguente rinvio al tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, quale giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 383 c.p.c., comma 3, e art. 353 c.p.c., comma 1, anche per le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso.

Cassa l'impugnata sentenza; dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rinvia la causa al Tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 22 aprile 2008.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2008

 


 
 

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